A Gaza, dopo anni di bombardamenti e violenze, il cessate il fuoco sta portando a un primo, fragile sollievo alla popolazione stremata. Tuttavia, la situazione umanitaria resta gravissima: milioni di sfollati, infrastrutture distrutte e accesso limitato a cibo e cure mediche. In questo contesto, le organizzazioni umanitarie continuano a operare sul campo per garantire assistenza e sostegno. Interris.it ha intervistato il dott. Danilo Feliciangeli, referente di Caritas Italiana per il Medio Oriente.
L’intervista
Dottor Feliciangeli, che situazione umanitaria si sta profilando a Gaza?
“Finalmente c’è il cessate il fuoco, una tregua tanto attesa che porta un po’ di sollievo, perché gli attacchi più pesanti sono cessati. È un primo passo necessario, il punto di partenza verso una speranza di nuova normalità per gli abitanti di Gaza. Tuttavia, la situazione umanitaria resta drammatica sotto ogni aspetto. Si continua a morire, sia per nuovi episodi di scontro con l’esercito israeliano, sia per la presenza di numerosi ordigni inesplosi e di bande criminali che causano ulteriori vittime. Le condizioni generali sono ancora disastrose: due milioni di persone risultano sfollate e circa l’86% delle abitazioni e degli edifici è stato distrutto o danneggiato. Il cibo finalmente sta entrando in quantità maggiore rispetto a prima, ma resta assolutamente insufficiente rispetto ai bisogni della popolazione. C’è anche un enorme bisogno di cure mediche: migliaia di persone devono essere evacuate per ricevere trattamenti sanitari urgenti che non possono essere garantiti a Gaza. In sintesi, la situazione umanitaria è ancora gravissima. C’è un po’ più di ottimismo e speranza grazie al cessate il fuoco, ma i bisogni restano enormi e c’è ancora moltissimo da fare.”
Come sta operando Caritas sul campo?
“Abbiamo 126 colleghi ancora nella Striscia di Gaza. Dopo l’invasione di terra, quando l’occupazione di Gaza City ha reso impossibile lavorare lì, si sono spostati verso sud. Le cinque cliniche che gestiamo sono state chiuse, ma contiamo di riaprirle presto. Nel frattempo, sono riprese le distribuzioni di generi di prima necessità: pochi giorni fa, ad esempio, è stata effettuata una consegna di latte in polvere per neonati. Continuiamo con le attività portate avanti in questi due anni di guerra: assistenza medica, sostegno psicologico e distribuzione di aiuti economici per permettere alle famiglie di acquistare quel poco che è disponibile sul mercato locale. La grande differenza oggi è che, per i nostri operatori come per tutti gli abitanti di Gaza, la situazione è leggermente più sicura. Questo consente di operare in condizioni migliori e di far entrare più generi di prima necessità rispetto ai giorni scorsi. Questi due fattori ci permetteranno, a breve, di aumentare significativamente la nostra capacità operativa e l’efficacia dell’assistenza umanitaria”.

Quali sono i vostri auspici per il futuro e in che modo chi lo desidera può sostenere la vostra azione?
“Speriamo che questo sia davvero l’inizio di una pace duratura. Purtroppo, il cessate il fuoco è già stato violato in alcuni momenti, ma auspichiamo che possa reggere e diventare il primo passo verso una convivenza stabile non solo a Gaza, ma in tutta la Terra Santa, tra il popolo palestinese e quello israeliano. Noi continueremo con le attività umanitarie e, parallelamente, lavoreremo sulla ricostruzione materiale e sociale delle comunità devastate dal conflitto. È fondamentale pensare non solo alla ricostruzione degli edifici, ma anche al recupero del tessuto umano e comunitario. Stiamo portando avanti, ad esempio, progetti di formazione per operatori locali, in modo che, quando sarà possibile, possano diventare operatori di pace nei loro contesti. Chi desidera sostenere questi progetti può farlo attraverso donazioni, anche di piccolo importo, alle Caritas diocesane o tramite il sito nazionale, dove si trovano tutte le informazioni utili. Temiamo che, con il rallentamento del conflitto, l’attenzione verso Gaza possa diminuire. Ma è proprio adesso che c’è più bisogno di aiuto, perché comincia il tempo lungo e difficile della ricostruzione: delle case, dei servizi, ma soprattutto delle comunità e delle relazioni umane ferite dalla guerra”.

