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49 milioni di schiavi nel mondo: l’allarme di Antonio Stango nella Giornata contro la schiavitù

La denuncia del presidente della FIDU Antonio Stango: dalla tratta al lavoro forzato, dal caporalato ai matrimoni imposti, la schiavitù esiste ancora e riguarda milioni di persone. Servono educazione, controlli e azione internazionale per sradicarla

A sinistra: il prof. Antonio Stango, presidente della Fidu. A destra: Foto di Sammis Reachers da Pixabay

“Dobbiamo sempre pensare che sconfiggere situazioni che negano la dignità, la libertà e spesso la vita stessa della persona umana sia possibile. Per sconfiggere la schiavitù si devono ridurre tutti gli elementi che la favoriscono o la determinano: la mancanza o l’inadeguatezza di strutture educative e sociali, la persistenza di regimi autoritari o totalitari bellicisti, le tensioni interetniche in alcune regioni, la potenza di organizzazioni criminali locali o transnazionali”. E’ quanto ha dichiarato il professore Antonio Stango, presidente della Federazione Italiana Diritti Umani, intervistato da Interris.it in occasione della Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù.

L’intervista

Professore, di cosa parliamo quando ci riferiamo alla schiavitù?

“Abbiamo tutti presente l’immagine della schiavitù antica, quando la condizione di schiavo era sancita da leggi e privava esseri umani di qualsiasi diritto, potenzialmente perfino quello alla vita. Solo dalla metà del XVIII secolo, con atti giuridici di uno o più Stati e con dichiarazioni multilaterali (come quella del Congresso di Vienna del 1815) quel tipo di schiavitù venne progressivamente abolita – anche se in alcuni Paesi, come in Mauritania, soltanto in anni molto recenti e con tracce ancora oggi socialmente e politicamente rilevanti. Il divieto di schiavitù è netto nell’articolo 4 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948: ‘Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma’. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, del 1966, all’articolo 8, ripete quelle parole e aggiunge qualcosa che riguarda direttamente una forma di schiavitù contemporanea, che è di fatto e non più di diritto: ‘Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato’ (se non nei casi di pena regolarmente comminata da un tribunale competente, per servizio nazionale di carattere militare o civile e in situazioni di emergenza o di calamità). Il lavoro forzato, la servitù per debiti, il matrimonio forzato, la tratta di esseri umani sono tutti elementi della schiavitù contemporanea, concretizzandosi in situazioni di sfruttamento determinate da violenza, minacce, inganni, abusi di potere o altre forme di coercizione”.

In un mondo così evoluto e globalizzato, esistono ancora gli schiavi?

“Purtroppo sì, anche se non per legge ma contro la legge. Le ultime stime globali disponibili sono contenute in un rapporto pubblicato nel 2023 dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e dall’associazione specializzata ‘Walk Free’: con riferimento a dati raccolti nel 2021 (ma non c’è ragione di ritenere che la situazione sia molto cambiata), il rapporto indicava come in condizione di schiavitù moderna 49,6 milioni di persone, delle quali 27,6 milioni costrette a lavorare contro la loro volontà e 22 milioni al matrimonio forzato (secondo pratiche sociali ancora diffuse in alcuni Paesi e ora denunciate anche in comunità di immigrati in Europa)”.

Quali sono le schiavitù che dobbiamo affrontare?

“Casi di lavoro forzato sono stati individuati in molti settori, fra i quali l’edilizia, l’agricoltura e il lavoro domestico. Pensiamo, ad esempio, al ‘caporalato’ per i braccianti agricoli, tristemente comune in alcune regioni italiane soprattutto per i migranti, spesso già vittime di traffico ad opera di organizzazioni criminali. In Paesi meno sviluppati si può essere costretti a estrarre minerali, con paghe minime e in condizioni di estremo pericolo. Anche nelle nostre città, però, vi sono persone – tra le quali bambini – costrette all’accattonaggio o al furto, così come in molti casi sono vittime di sostanziale riduzione in schiavitù persone finite in reti di sfruttamento della prostituzione. Forme di lavoro forzato, anche minorile, sono state documentate nel settore della raccolta di cotone e della produzione di capi di abbigliamento (spesso per marchi internazionali importanti) in Cina, in India, in Bangladesh e in altri Paesi asiatici. La Cina utilizza anche un sistema di campi di lavoro le cui vittime sono principalmente appartenenti a minoranze, come gli uiguri. Su questo segnalo il podcast Made in Slavery, realizzato per la FIDU da Eleonora Mongelli e diffuso in partenariato con International Republican Institute e Southampton Solent University”.

Ci sono altre forme di riduzione in schiavitù?

“Altre forme di riduzione in schiavitù si verificano nei conflitti armati. Oltre agli abusi sulla popolazione civile da parte di truppe occupanti, è un crimine di guerra l’arruolamento di bambini di età inferiore a 15 anni per farli partecipare alle ostilità. Il Protocollo facoltativo del 2000 alla Convenzione sui diritti del fanciullo, riguardante il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, evidenzia che spesso ne sono responsabili ‘gruppi armati diversi dalle forze armate di uno Stato’; chiede agli Stati Parti di prevenire e punire tale impiego, e invita ad accordare ai bambini coinvolti ‘tutta l’assistenza necessaria alla loro riabilitazione fisica e psicologica ed alla loro reintegrazione sociale’”.

Pensa sia possibile sconfiggere, a livello globale, questo grave problema?

“Dobbiamo sempre pensare che sconfiggere situazioni che negano la dignità, la libertà e spesso la vita stessa della persona umana sia possibile. Per sconfiggere la schiavitù si devono ridurre tutti gli elementi che la favoriscono o la determinano: la mancanza o l’inadeguatezza di strutture educative e sociali, la persistenza di regimi autoritari o totalitari bellicisti, le tensioni interetniche in alcune regioni, la potenza di organizzazioni criminali locali o transnazionali. Naturalmente, occorrono una pluralità di interventi da parte degli Stati (a partire da maggiori controlli degli ispettorati del lavoro e dei servizi sociali), un’azione del sistema delle Nazioni Unite che non sia meramente declaratoria ma che risponda in modo efficace ai principi costitutivi e non a logiche di egemonia o di conquista da parte di alcuni membri, e il coinvolgimento attivo della società civile, dei media, del mondo dell’istruzione e della formazione”.

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