C’è un lembo di terra che il mondo conosce bene, ma che finge di dimenticare ogni volta che l’eco delle bombe si attenua. Gaza è la storia infinita di un conflitto che non trova pace, di una prigione a cielo aperto che da decenni alterna tregue fragili a nuove esplosioni di violenza.
Ogni generazione nasce con la speranza di vedere un giorno diverso, ma cresce tra macerie, check-point, sirene e funerali. I bambini imparano troppo presto che il cielo non è solo azzurro, ma può trasformarsi in fiamma e polvere. Le diplomazie parlano, i leader si accusano, le armi tacciono per un istante e poi tornano a urlare. È un ciclo che sembra non avere fine, perché la politica internazionale non trova coraggio e i popoli restano ostaggi dell’odio e della paura.
Eppure, persino a Gaza, tra le case sventrate, qualcuno alza un aquilone. È il segno che la vita, per quanto calpestata, non rinuncia a riaffermarsi. La storia infinita di Gaza non riguarda solo il Medio Oriente: riguarda tutti noi. È lo specchio delle nostre incapacità, delle nostre ipocrisie, della distanza tra le parole di pace e le scelte concrete. Fino a quando resterà così, Gaza non sarà solo una città martire: sarà la coscienza inquieta del mondo.

