Ci sono luoghi in cui le storie dei bambini cambiano: spesso in silenzio, lontano dai riflettori, giorno dopo giorno. Luoghi dove la fragilità non spaventa ma diventa un punto di partenza, dove le ferite non vengono ignorate e dove ogni bambino, anche quello che arriva da un passato difficile, può essere guardato con occhi che credono nel futuro. L’Albero della Vita ETS è uno di questi luoghi. Da trent’anni, questa Fondazione si muove nelle pieghe più delicate della società: periferie dimenticate, famiglie fragili, comunità di accoglienza, appartamenti protetti per mamme e bambini, scuole che hanno bisogno di sostegno. E poi c’è il mondo: Ucraina, Africa, Sud America. Ovunque ci siano infanzia vulnerabile e diritti negati. A raccontarci questo viaggio fatto di coraggio, responsabilità e umanità è Isabella Catapano, Direttrice Generale de L’Albero della Vita ETS.
Intervista a Isabella Catapano
Che fondazione è L’Albero della Vita? Di cosa si occupa?
“L’Albero della Vita da trent’anni aiuta bambini e ragazzi vulnerabili. Quando parliamo di ‘vulnerabilità’ intendiamo povertà educativa, difficoltà economiche, fragilità familiari e molte altre situazioni che possono compromettere una crescita serena. Lavorando con i minori, lavoriamo necessariamente anche con la comunità: genitori, scuole, istituzioni. La rete è fondamentale. Siamo anche una ONG: siamo presenti in diverse città italiane e in molti paesi esteri come Ucraina, Colombia, Costa d’Avorio, Niger e Kenya. Il nostro focus principale è l’educazione: il cibo e i beni essenziali sono importanti, ma è l’educazione che permette davvero di cambiare il futuro di un bambino”.
Spesso si pensa che in Italia tutti i bambini abbiano le stesse opportunità. È davvero così?
“Purtroppo no. In Italia un bambino su sette vive in povertà. E nei paesi ricchi la povertà è ancora più complessa, perché spesso è nascosta dalla vergogna. Ci sono famiglie che non riescono a mandare i figli a fare sport, o a scuola con continuità. Famiglie che non garantiscono nemmeno i tre pasti al giorno. Noi lavoriamo in periferie molto difficili: Ponticelli a Napoli, Aranceto a Catanzaro, lo Zen a Palermo.
Sono contesti dove mancano risorse, i ragazzi abbandonano la scuola e spesso le famiglie non hanno gli strumenti per chiedere aiuto”.
Quali sono i principali diritti negati ai bambini oggi?
“Il primo è il diritto all’istruzione: tanti ragazzi non ritornano a scuola perché le famiglie affrontano problemi complessi. C’è poi il diritto al gioco e allo sport, che per molte famiglie è economicamente irraggiungibile. Un altro diritto negato riguarda la salute psicologica: molti bambini hanno difficoltà emotive o di apprendimento, ma non possono accedere a uno psicologo perché i costi sono alti. E per i bambini stranieri la barriera linguistica rende tutto ancora più difficile. La scuola è un presidio fondamentale: è lì che emergono i segnali di disagio e spesso partono le segnalazioni. Per questo dobbiamo proteggere e sostenere l’istituzione scolastica”.
Come venite in contatto con i bambini e i giovani in difficoltà?
“Attraverso il nostro progetto “Varcare la Soglia” e la presenza costante nei quartieri. Il passaparola è fondamentale: una famiglia che aiutiamo lo racconta ad altre famiglie. Poi ci sono le scuole, che ci contattano quando notano problemi — un bambino che dorme in classe, che arriva senza aver fatto i compiti, che è evidentemente stanco o in difficoltà. Infine ci sono le segnalazioni degli assistenti sociali.
Costruiamo fiducia nel territorio, perché molte famiglie hanno paura delle istituzioni: per mancanza di documenti, diffidenza o esperienze negative. Noi ci presentiamo come un supporto, non come un’autorità”.
Sul vostro sito ho letto la storia della comunità “Zerosei”. Di che tipo di struttura si tratta?
“La comunità ‘Zerosei’ accoglie bambini da 0 a 6 anni allontanati dalle famiglie. È diversa dai centri diurni: qui i bambini vivono ogni giorno, perché le loro storie sono molto difficili. Spesso dietro un allontanamento ci sono incuria, violenze, dipendenze. L’errore umano può esistere, ma nella maggior parte dei casi l’allontanamento è una misura di protezione. In molti paesi del mondo questo non accade: bambini picchiati o trascurati restano nelle loro famiglie perché mancano strumenti e risorse. In Italia, invece, l’intervento delle istituzioni è una tutela fondamentale”.
Avete anche un progetto dedicato all’affido. Come funziona?
“Sì, collaboriamo con i servizi sociali per individuare famiglie affidatarie. Nelle nostre sedi creiamo spazi neutri dove i bambini incontrano la famiglia d’origine. Le storie sono spesso durissime. Ricordo una mamma arrivare alle 8.30 del mattino completamente ubriaca, incapace di occuparsi della figlia di quattro anni.
In questi casi non si tratta di giudicare, ma di proteggere il bambino e allo stesso tempo sostenere il genitore nel percorso di recupero”.
E poi c’è il progetto “mamma-bambino”: ce lo racconta?
“Sì, abbiamo una palazzina con 26 appartamenti dedicati a mamme vittime di violenza, spesso anche economica. Lavoriamo con loro sull’autonomia: gestione del denaro, cura del bambino, organizzazione domestica. Capita che una mamma appena arrivata finisca tutti i soldi il giorno 2 del mese: da qui capiamo quanto supporto serva. Dopo un anno o un anno e mezzo, molte riescono a trovare lavoro e casa.
Restano due ostacoli grandi: la difficoltà ad accedere agli alloggi popolari e la scarsità di posti al nido, che impedisce alle mamme di lavorare”.
Con il Natale alle porte, quale augurio vuole fare ai bambini e alle famiglie del mondo?
“Auguro che ogni bambino possa godere dei propri diritti, che in fondo significano una sola cosa: amore. Ogni bambino dovrebbe potersi svegliare felice, avere un gioco, un genitore presente, una comunità che non lo lascia solo. Mi auguro più integrazione e meno individualismo: un tempo i bambini erano “di tutti”, del vicinato, della comunità. E un pensiero speciale agli adolescenti: spesso appaiono difficili, ma stanno affrontando un periodo molto complesso. Il nostro motto è: quando vedi un adolescente, sorridigli. Un gesto così piccolo può fare una grande differenza”.

