Viviamo un tempo in cui la parola “sociale” rischia di diventare tecnica, burocratica, o ideologica. Eppure, c’è chi otto secoli fa ha osato darle un’anima, una visione, un canto. Francesco d’Assisi ha avuto questa intuizione: che la bellezza può essere generativa, che la parola può curare, che la fraternità può essere narrata. Ma con quale spiritualità sostiene questa poiesis? Quale sorgente profonda alimenta questi gesti creativi? La risposta, forse inattesa, ci viene dal suo paradosso, forse il più luminoso: la perfetta letizia.
San Francesco il primo poeta sociale
Nei Fioretti (cap. VIII), Francesco racconta a frate Leone che la vera letizia non è essere accolti, lodati, o riconosciuti. È essere respinti, umiliati, e tuttavia restare nella gioia. Questa letizia non è evasione, ma adesione radicale al Vangelo. È la gioia che nasce dal dono totale, dalla povertà accolta, dalla fraternità vissuta fino in fondo. Francesco è un poeta non solo perché ha scritto il Cantico delle Creature, ma perché trasfigura la realtà. I suoi gesti — il bacio al lebbroso, il lupo di Gubbio, il presepe di Greccio, il rifiuto della proprietà — sono atti elevati, potenti e simboli viventi. È il primo poeta sociale, perché crea relazioni, comunità, sublimazione, linguaggi nuovi. E’ la bellezza creativa trasfigurata in azione, che nasce dalla gratuità, dalla speranza, dalla capacità di vedere il possibile dove altri vedono il fallimento. Non è una bellezza decorativa, ma generativa; una bellezza, che costruisce ponti, che accende desideri, che restituisce dignità.
La letizia francescana
La letizia francescana può diventare una risonanza spirituale, un criterio di discernimento per la vita sociale. Non ogni azione creativa è evangelica. Ma quella che nasce dalla gioia profonda, dalla gratuità, dalla relazione, sì. Vivere una spiritualità sociale, quando è autentica e vera, è incarnazione della letizia. È bellezza che nasce dalla croce, dalla prova, dalla fedeltà. Francesco ci insegna che la gioia non è il contrario del dolore, ma la sua trasfigurazione. Spesso viviamo questa dinamica, senza accorgersene. Perciò la perfetta letizia non coincide con il successo, il riconoscimento o la consolazione, ma con la capacità di restare nella gioia anche nella prova, nel rifiuto, nella povertà. Essa diventa così criterio teologico: è il segno di una vita evangelica, radicata nella gratuità e nella comunione. Francesco, in questo senso, non è solo mistico, ma cantore sociale: la sua vita è una composizione simbolica, una narrazione incarnata del Vangelo, capace di generare nelle persone gesti sussidiari e solidali nella comunità.
San Francesco e Giacinto Dragonetto
Per Francesco la perfetta letizia non è un successo, né una ricompensa, ma una trasfigurazione, una fedeltà e una gratuità radicale, che non chiede premi. Ma paradossalmente è proprio lui a mostrare che quando la virtù è autentica, diventa contagiosa, sociale, pubblica. E qui non è fuori luogo il collegamento profondo – dopo cinque secoli tra Francesco d’Assisi e Giacinto Dragonetti, anche se sembrano abitare mondi lontani: il primo, un semplice e mistico frate del XIII secolo; il secondo, un giurista illuminista napoletano del Settecento. Eppure entrambi parlano di felicità, e lo fanno controcorrente.
Il paradosso sociale denunciato da Dragonetti
Nel suo Trattato delle virtù e dei premi (1766), Dragonetti denuncia un paradosso sociale: gli uomini hanno creato “milioni di leggi per punire i delitti, ma non una per premiare le virtù”. La sua intuizione è radicale: la società non si rigenera punendo il male, ma onorando il bene, riconoscendo la virtù, generando la felicità pubblica attraverso la gratuità e il merito civile. Egli è pienamente dentro la tradizione dell’economia civile, come conferma anche la letteratura contemporanea. Eppure, ci sembra che spesso dagli economisti sia messo in sordina: forse perché parla di premi morali, di virtù (facoltà che perfeziona le potenze dello spirito spingendole a bene operare), di riconoscimento; categorie queste che oggi appaiono, dal punto di vista economico “ingenue”, ma che in realtà sono profondamente insite nel concetto di politeia.
La gioia nasce dalla gratuità
Francesco mostra che la gioia nasce dalla gratuità. Dragonetti mostra che la società fiorisce quando la gratuità viene riconosciuta. Il primo afferma che la virtù è gioia interiore, il secondo che merita un premio morale; per il primo la gratuità è sorgente spirituale, che con la bellezza rigenera la comunità, per il secondo è capitale sociale, che costruisce la felicità pubblica. In altre parole: Francesco vive ciò che Dragonetti teorizza. Dragonetti teorizza ciò che Francesco incarna. Per entrambi, dunque, è proprio la virtù, che quando è riconosciuta e condivisa, genera la felicità pubblica.
La gioia che nasce dal dono
Dragonetti intuisce che la società si rigenera non attraverso la paura della pena, ma attraverso la bellezza del bene. È un pensiero che dialoga profondamente con la perfetta letizia francescana. Francesco non cerca premi, ma la sua gratuità diventa contagiosa; non chiede riconoscenza, ma la sua gioia diventa bene comune. La perfetta letizia è la forma spirituale di ciò che Dragonetti chiamerà felicità pubblica: la gioia che nasce dal dono e che, proprio perché donata, diventa generativa, sociale, civile. La perfetta letizia e la felicità pubblica sono due nomi diversi per la stessa intuizione: che la bellezza del bene è generativa, e che solo ciò che è donato può davvero trasformare il mondo. Se per Dragonetti la felicità non è un fatto emozionale e privato, ma è un bene relazionale, un capitale morale che circola quando la virtù viene vista, riconosciuta, imitata, non è fuori luogo ammettere che è pienamente, pur con una nota tutta sua, dentro la tradizione dell’economia civile e francescana: Francesco ha vissuto ciò che Dragonetti ha pensato. Due vie alla felicità, ma con una stessa radice civile e bene relazionale.

