Papa Francesco: “Quando serviamo chi soffre consoliamo e rallegriamo il Cuore di Cristo”

Il Santo Padre ha presieduto la Celebrazione Eucaristica in occasione del sessantesimo anniversario dall'inaugurazione della Facoltà di Medicina e Chirurgia fondata da Padre Agostino Gemelli

Francesco
Papa Francesco alla Celebrazione Eucaristica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore

Oggi Papa Francesco alle ore 10:30, presso la sede romana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha presieduto la Celebrazione Eucaristica che si è tenuta presso il campus romano dell’Ateneo in occasione della ricorrenza per i sessant’anni dall’inaugurazione della Facoltà di Medicina e Chirurgia.

L’apertura della scuola e le dimensioni attuali

L’apertura della scuola medica è avvenuta il 5 novembre del 1961 alla presenza di San Giovanni XXIII che ha rappresentato il completamento del progetto di Padre Agostino Gemelli di dar vita ad una Università che mettesse la persona umana al centro di ogni attività di ricerca e di formazione. Dall’anno accademico 1966-1967 al 2020-2021 sono 26 mila e 410 le persone che si sono laureate. Oggi la Facoltà ha una dimensione sempre più internazionale. Attualmente sono 302 gli studenti provenienti dall’estero.

I presenti

Alla funzione sono presenti il Rettore professor Franco Anelli e l’Assistente Ecclesiastico Generale Monsignor Claudio Giuliodori che hanno espresso al Santo Padre il sentimento di profonda gratitudine dei docenti, del personale, degli assistenti pastorali, delle studentesse e degli studenti dell’Ateneo per il dono della sua presenza in una giornata così importante per la comunità universitaria.

L’omelia del Santo Padre

Papa Francesco nel corso dell’omelia ha pronunciato queste parole “Mentre commemoriamo con gratitudine il dono di questa sede dell’Università Cattolica, vorrei condividere qualche pensiero a proposito del suo nome. Essa è intitolata al Sacro Cuore di Gesù, a cui è dedicato questo giorno, primo venerdì del mese. Contemplando il Cuore di Cristo, possiamo lasciarci guidare da tre parole: ricordo, passione e conforto. Ricordo. Ri-cordare significa “ritornare con il cuore”. A che cosa ci fa ritornare il Cuore di Gesù? A quanto ha fatto per noi: il Cuore di Cristo ci mostra Gesù che si offre: è il compendio della sua misericordia. Guardandolo – come fa Giovanni nel Vangelo –, viene naturale fare memoria della sua bontà, che è gratuita e incondizionata, non dipende dalle nostre opere. E commuove. Nella fretta di oggi, tra mille corse e continui affanni, stiamo perdendo la capacità di commuoverci e di provare compassione, perché stiamo smarrendo questo ritornare al cuore, il ricordo, la memoria. Senza memoria si perdono le radici e senza radici non si cresce. Ci fa bene alimentare la memoria di chi ci ha amato, curato, risollevato. Io vorrei rinnovare oggi il mio “grazie” per le cure e l’affetto che ho ricevuto qui. Credo che in questo tempo di pandemia ci faccia bene fare memoria anche dei periodi più sofferti: non per intristirci, ma per non dimenticare, e per orientarci nelle scelte alla luce di un passato molto recente. Ma come funziona la nostra memoria? Semplificando, potremmo dire che noi ricordiamo qualcuno o qualcosa quando ci tocca il cuore, quando si lega a un particolare affetto o a una mancanza di affetto. Ebbene, il Cuore di Gesù guarisce la nostra memoria perché la riporta all’affetto fondante. La radica sulla base più solida. Ci ricorda che, qualunque cosa ci capiti nella vita, siamo amati. Sì, siamo esseri amati, figli che il Padre ama sempre e comunque, fratelli per i quali il Cuore di Cristo palpita. Ogni volta che scrutiamo quel Cuore ci scopriamo «radicati e fondati nella carità», come ha detto l’Apostolo Paolo nella prima Lettura.

Coltiviamo questa memoria, che si rafforza quando stiamo a tu per tu con il Signore, soprattutto quando ci lasciamo guardare e amare da Lui nell’adorazione. Ma possiamo coltivare anche tra di noi l’arte del ricordo, facendo tesoro dei volti che incontriamo. Penso alle giornate faticose in ospedale, in università, al lavoro. Rischiamo che tutto passi senza lasciare traccia o che restino addosso solo tanta fatica e stanchezza. Ci fa bene, alla sera, passare in rassegna i volti che abbiamo incontrato, i sorrisi ricevuti, le parole buone. Sono ricordi di amore e aiutano la nostra memoria a ritrovare sé stessa. Quanto sono importanti questi ricordi negli ospedali! Possono dare il senso alla giornata di un ammalato. Una parola fraterna, un sorriso, una carezza sul viso: sono ricordi che risanano dentro, fanno bene al cuore. Non dimentichiamo la terapia del ricordo! Passione è la seconda parola. Il Cuore di Cristo non è una pia devozione per sentire un po’ di calore dentro, non è un’immaginetta tenera che suscita affetto. È un cuore appassionato, ferito d’amore, squarciato per noi sulla croce. Abbiamo sentito come il Vangelo ne parla: «Una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua». Trafitto, dona; morto, ci dà vita. Il Sacro Cuore è l’icona della passione: ci mostra la tenerezza viscerale di Dio, la sua passione amorosa per noi, e al contempo, sormontato dalla croce e circondato di spine, fa vedere quanta sofferenza sia costata la nostra salvezza. Nella tenerezza e nel dolore, quel Cuore svela insomma qual è la passione di Dio: l’uomo.

Che cosa suggerisce questo? Che, se vogliamo amare davvero Dio, dobbiamo appassionarci dell’uomo, di ogni uomo, soprattutto di quello che vive la condizione in cui il Cuore di Gesù si è manifestato: il dolore, l’abbandono, lo scarto. Quando serviamo chi soffre consoliamo e rallegriamo il Cuore di Cristo. Un passaggio del Vangelo colpisce. L’evangelista Giovanni, proprio nel momento in cui racconta del costato trafitto, da cui escono sangue e acqua, dà testimonianza perché noi crediamo. San Giovanni scrive cioè che in quel momento avviene la testimonianza. Perché il Cuore squarciato di Dio è eloquente. Parla senza parole, perché è misericordia allo stato puro, amore che viene ferito e dona la vita. È Dio. Quante parole diciamo su Dio senza far trasparire amore! Ma l’amore parla da sé, non parla di sé. Chiediamo la grazia di appassionarci all’uomo che soffre, di appassionarci al servizio, perché la Chiesa, prima di avere parole da dire, custodisca un cuore che pulsa d’amore.

La terza parola è conforto. Essa indica una forza che non viene da noi, ma da chi sta con noi. Gesù, il Dio-con-noi, ci dà questa forza, il suo Cuore dà coraggio nelle avversità. Tante incertezze ci spaventano: in questo tempo di pandemia ci siamo scoperti più piccoli e fragili. Nonostante tanti meravigliosi progressi, lo si vede anche in campo medico: quante malattie rare e ignote, quanta fatica a stare dietro alle patologie, alle strutture di cura, a una sanità che sia davvero come dev’essere, per tutti. Potremmo scoraggiarci. Per questo abbiamo bisogno di conforto. Il Cuore di Gesù batte per noi ritmando sempre quelle parole: “Coraggio, non avere paura!”. Coraggio sorella, coraggio fratello, non abbatterti, il Signore tuo Dio è più grande dei tuoi mali, ti prende per mano e ti accarezza. Egli è il tuo conforto. Se guardiamo la realtà a partire dalla grandezza del suo Cuore, la prospettiva cambia, cambia la nostra conoscenza della vita perché, come ci ha ricordato San Paolo, conosciamo «l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza». Incoraggiamoci con questa certezza, con il conforto di Dio. E chiediamo al Sacro Cuore la grazia di essere capaci a nostra volta di consolare. È una grazia che va chiesta, mentre ci impegniamo con coraggio ad aprirci, aiutarci, portare gli uni i pesi degli altri. Vale anche per il futuro della sanità, in particolare della sanità “cattolica”: condividere, sostenersi, andare avanti insieme. Gesù apra i cuori di chi si prende cura dei malati alla collaborazione e alla coesione. Al tuo Cuore, Signore, affidiamo la vocazione alla cura: facci sentire cara ogni persona che si avvicina a noi nel bisogno.