Dallo sport può partire una società più inclusiva

Sono un bambino autistico, ho dieci anni, mi piace giocare a calcio. Mi ricordo tutte le squadre a memoria, il nome dei giocatori, anche quelli stranieri. Non sono un campione, ma ce la metto tutta, vivo con il pallone attaccato ai piedi. Cosa mi piacerebbe quando gioco una partita? Che i miei compagni non mi scherzassero, che non ridessero di me, che non mi sgridassero se sbaglio; vorrei essere nella squadra A e non sempre nella B.

Mia mamma cerca di proteggermi come un leone, o come una leonessa, lo so; parla con gli allenatori, cerca di creare una rete intorno a me che mi sostenga, che mi aiuti, anche quando lei non potrà più accompagnarmi. Ma non è facile. Anche tra i bambini c’è grande competizione, a volte anche tra gli adulti che guardano noi bambini giocare. E la competizione mi mette ansia. Non dovrebbe essere così: ogni bambino, anche se disabile, dovrebbe avere la possibilità di fare sport. Dallo sport può partire una società più inclusiva. E dopo lo sport, la scuola, i negozi, gli uffici pubblici, l’ospedale, il lavoro… tutti gli ambienti che una famiglia con un bambino disabile, o un disabile adulto, frequenta normalmente.

Io sono la mamma di quel bambino disabile e il sogno di una società inclusiva cerco di realizzarlo ogni giorno. Non è facile, perché solo poche persone che incontro sul mio cammino vogliono veramente cambiare il mondo come me. Per tanti è solo un’inclusione di facciata. Ma quelle persone ci sono e se noi genitori non molliamo, non ci lasciamo sopraffare dalla stanchezza e dai muri di gomma che incontriamo, sono sicura che qualcosa cambierà per i nostri bambini, per il loro futuro, quando dovranno cavarsela da soli.