Le coscienze corrose dalla modernità

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Secondo gli storici è impossibile fissare una cronologia della modernità, collocandone la data d’inizio nel tardo Rinascimento, intorno al 1500. Indicare poi quali cesure successive il 1789 e il 1900 significa basarsi su una concezione astratta delle epoche. Quel che è certo è che la modernità corrodeva le coscienze. L’uomo si cullava sempre più nell’illusione prometeica di diventare padrone della propria vita, della propria libertà, del proprio destino. Ma al prezzo di recidere le proprie radici, di provocare una netta separazione tra la vita e la fede. E, questa situazione, si acuì all’arrivo dell’Illuminismo, con la cultura dell’immanenza, con le nuove idee portate dalla scienza, dal razionalismo. “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”, diceva Immanuel Kant all’uomo che stava passando dalla modernità alla contemporaneità. E poi, il terremoto della Rivoluzione francese, con il “culto” della dea Ragione. E ancora, la Restaurazione.

I rappresentanti degli imperatori che intervenivano in Conclave per impedire l’elezione di certi candidati. Il Sillabo di Pio IX, con la condanna di ogni nuova forma di pensiero. E, appunto dopo tre secoli, un altro Concilio, il Vaticano I, che però venne interrotto quasi subito dalle cannonate italiane contro Porta Pia. Segnando la fine del potere temporale dei Papi, e, nello stesso tempo, il Risorgimento che trovava il suo naturale completamento nell’unità d’Italia.

Il Concilio, prima di chiudersi, aveva dato un immenso potere in più al capo della Chiesa cattolica: una infallibilità assoluta, indiscussa, perché veniva dall’Alto. Dunque, un Papa sempre più monarca, una Chiesa sempre più autoreferenziale, e invece – saltato il dibattito sul suo status e le sue funzioni – un episcopato che non avrebbe più mosso foglia senza il permesso di Roma. Ma, peggio, una religiosità sempre più dipendente da un sistema quasi “schiavistico” di regole, di precetti. La stessa Scolastica non era più quella di una volta, di san Tommaso, ma una versione riveduta, corretta, sempre più verso il basso. Ormai, quello che c’era scritto nei manuali di casuistica era diventato più importante della vita reale, la vita concreta della gente.  Un Papa, Pio XI, nella sua enciclica Casti connubi, arriverà a dire che il “retto ordine” della famiglia “richiede da una parte la superiorità del marito sopra la moglie e i figli, e dall’altra la pronta soggezione e ubbidienza della moglie”. Testuale, ogni parola.

Un altro “ordine”, invece, stava scomparendo: ed era quello del mondo, soprattutto europeo, che aveva prevalso per oltre un millennio, e che le due guerre mondiali avevano fatto definitivamente crollare. Era stato un continuo processo degenerativo, spinto dai “cattivi maestri”, Nietzsche, Freud, Marx, Engels, fino alla follia nazista, fino all’ateismo istituzionalizzato. E poi, il nichilismo, Camus, Sartre. E la secolarizzazione, il relativismo morale, la laicizzazione della vita sociale. L’uomo sempre più allontanato da Dio. Un Dio sempre più oscurato. Fino al “Dio non esiste!”. E se questa visione agnostica del mondo progrediva ogni giorno, era dovuto anche al fatto che il cristianesimo, proprio per la sua debolezza, aveva lasciato uno spazio vuoto. “Per la prima volta nella storia – scriveva J.-M. Domenach – alcune società vivono al di fuori di qualsiasi apparente riferimento al sacro. I bambini che vi vengono allevati non hanno più occasione di incontrare il sacro”. O, nel migliore dei casi, imparavano a memoria il catechismo di san Pio X, “Chi è Dio?”, con il vantaggio di portarselo dietro per tutta la vita; ma anche con l’immagine di un Dio onnipotente, padrone di tutto, nascosto nei cieli. Da lì, da quelle lezioni di dottrina, erano uscite intere generazioni di cristiani che, a motivo dell’apprendimento soltanto mnemonico, non avrebbero maturato le verità della fede, gli insegnamenti morali. E siccome per secoli la Chiesa si era preoccupata solo dei fanciulli, gli adulti erano stati lasciati a sé stessi. E avevano finito per ridurre la vita cristiana ai momenti simbolici essenziali, o per dare importanza solo a quelli che erano semplici comportamenti della quotidianità.