Una penna contro le mafie: la storia di Donato Ungaro

La storia di Donato Ungaro che ha immerso la sua penna in acqua torbide disturbando le amministrazioni pubbliche e la ‘Ndrangheta che aveva progettato un piano per “sistemarlo” definitivamente

La mafia è un fenomeno sociale che muta in maniera eccezionale. Così, riesce a adattarsi ai tempi e farsi silenziosa. I suoi interessi spaziano dalla gestione dei rifiuti alle nuove tecnologie. Affari per milioni di euro che devono essere curati con la complicità di imprenditori, commercialisti e uomini delle istituzioni. Ma può capitare che questa grande tavola rotonda venga disturbata da un giornalista che indaga, fa domande e trova delle risposte. È il caso di Donato Ungaro che ha immerso la sua penna in acqua torbide disturbando le amministrazioni pubbliche (che lo hanno licenziato dal suo impego) e la ‘Ndrangheta che aveva progettato un piano per “sistemarlo” definitivamente.

Ungaro la sua storia comincia a Brescello. Cosa ha raccontato?

Ho iniziato a scrivere per la Gazzetta di Reggio nel 2001; già dopo pochi mesi dal mio primo articolo il tenore dei titoli era ‘Scritte mafiose nei cantieri’. Io ero tornato a Brescello, dove avevo vissuto da ragazzino, per l’amore verso Guareschi. Vedere Brescello, le rive del Po, saccheggiate da imprenditori senza scrupoli, affiancati da amministratori che non sapevano vedere che l’interesse economico, mi aveva stordito. Iniziai a scrivere del progetto di una centrale elettrica a Turbogas da 800 Mghw, con i cittadini brescellesi che scrivevano per protesta: ‘Venduti un tanto al kilowatt’. Scrivevo lasciando intendere delle speculazioni che si nascondevano dietro alla costruzione della centrale elettrica, che avrebbe portato nelle casse del Comune di Brescello dai 3 ai 9 miliardi di lire di tasse (all’anno) di concessione per la produzione di energia elettrica. E quando la Ansaldo, l’azienda che doveva costruire la centrale, si ritirò dal progetto, io venni ‘licenziato’ in tronco dal Comune di Brescello. Sì, perché ero il ‘vigile urbano’ e il sindaco Ermes Coffrini mi aveva autorizzato a collaborare con la testata reggiana”.

La politica locale non ha preso bene le sue inchieste a partire dal sindaco. Qual è stato il motivo del suo licenziamento?

“’C’è la possibilità che venga violato il segreto d’ufficio’, mi è stato detto. La politica locale non ha preso bene il fatto che io facessi il giornalista per davvero. Forse qualcuno sperava che io fossi una voce più remissiva. Ma non potevo esserlo, per il mio trascorso nei carabinieri. Come diceva il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un carabiniere gli alamari se li cuce sulla pelle: e io, i miei alamari da carabiniere, me li sono sempre sentiti appiccicati sul cuore. Non potevo cedere a compromessi, per favorire la campagna a favore della costruzione di una centrale elettrica nelle campagne dove Peppone e don Camillo si rincorrevano in bicicletta. E poi c’era la storia della sabbia scavata abusivamente nel Po, degli scarti di fonderia utilizzati come sottofondo stradale. Avevo collaborato a un servizio con Le Iene di Italia Uno, proprio sulle escavazioni abusive; in quei giorni mi hanno tagliato le gomme dell’auto per due volte in poco più che un mese. Ed era il 2004, proprio l’anno indicato dal pentito Vincenzo Marino, il quale ha detto che c’era un progetto della ‘Ndrangheta per sistemarmi. Insomma, dopo alcuni tentativi da parte dell’amministrazione di farmi desistere dalla mia attività di giornalista, sono stato licenziato. Era il 2002. La sentenza della Corte di Cassazione che sancisce che quel licenziamento era illegittimo è arrivata nel 2015. Ora sono ancora in discussione, per la parte economica della causa, con il Comune di Brescello, il cui consiglio comunale nel frattempo è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Dal 2013 aspetto di ricevere il Trattamento di Fine Servizio”.

Ora lei come vive?

Dopo il licenziamento, oltre che con la Gazzetta di Reggio, ho collaborato con diverse testate giornalistiche: la Gazzetta di ParmaTvParma, il Corriere della Romagna, la redazione bolognese de l’UnitàMantovaTv, il tg de La7. Nel 2005 ho superato l’esame di Stato per l’esercizio della professione giornalistica. Poi mi sono trasferito a Bologna, dove scrivevo per Piazza Grande e il Nuovo Informatore Atc, di cui ero diventato direttore. Ma per pagare l’affitto e mantenere i miei figli mi sono ritrovato a guidare gli autobus cittadini; fino al 24 luglio scorso, quando Marino ha detto che ero nel mirino della ‘Ndrangheta. Non ho la certezza che il clamore nato oggi intorno al mio nome non renda ancora attuale il progetto di sistemarmi. Per senso di responsabilità nei confronti degli altri ho chiesto un periodo di aspettativa. Ma non trovo normale vivere senza stipendio; spero sia possibile tornare a guadagnarmi da vivere facendo il giornalista”.

Quando ha cominciato a scrivere di mafia, si è sentito isolato?

Più che di isolamento parlerei di sconcerto da parte di tutti quelli che mi stavano intorno. Sembrava che tutti – pur sapendo quello che succedeva – preferissero non affrontare il problema. E così ci si abitua a non parlarne, percependo come strano e fuori luogo chi cerca di sollevare l’attenzione non tanto e non solo sulla presenza della mafia, ma su quelle situazioni introdotte dalla politica locale e dall’imprenditoria nostrana che di fatto arriva a fare il gioco della mafia. Si trattava di un atteggiamento spavaldo che vedeva il concetto di mafia come una categoria ben definita: pastori ignoranti con lupara e coppola. Bastava togliere la “divisa” al mafioso e la personalità del criminale era rideterminata; chi darebbe del mafioso a un professionista in giacca e cravatta con la 24 ore? Eppure, tra gli imputati del processo Aemilia – il più importante processo alla ‘Ndrangheta del Nord Italia – c’erano commercialisti e uomini delle forze dell’ordine: e giornalisti… Uomini e donne che fino alla condanna si sentivano intoccabili e favoriti dalle amicizie di persone che si rivolgevano a loro per portare all’estero, attraverso transazioni elettroniche, quei milioni di euro che fino a quel momento avevano viaggiato verso la Svizzera nei sacchi neri dell’immondizia. Chiaro che il fanciullo che dice «Il Re è nudo» viene preso per stolto; ecco, io mi sentivo come il bambino della fiaba I vestiti nuovi dell’Imperatore, di Andersen”.

Al Nord ci sono radicamenti profondi della criminalità organizzata in particolare della ‘Ndrangheta. C’è consapevolezza da parte della popolazione?

“Assolutamente no. Si continua a sostenere che si hanno gli anticorpi, ma per avere gli anticorpi la condizione è di aver ‘preso’ (e superato: esser guariti) la malattia. E se non si riconoscono neanche i sintomi della malattia, come ci si può render conto di essere ammalati? Il rischio è quello di essere vittime di mafia asintomatiche. Per i cittadini ma anche per le istituzioni, le aziende, gli artigiani. Si capisce che c’è qualcosa che non va, ma non si pensa alla mafia perché non si riconoscono i segnali della mafia. Le mafie si espandono dove c’è la ricchezza, ma anche dove non ci sono strumenti per combattere l’arroganza delle mafie. Dove non ci sono sensibilità a certi argomenti. Un anno fa ho sentito Rosy Bindi, già Presidente della Commissione parlamentare antimafia, esprimere un concetto chiarissimo: ‘La mafia non ti entra in casa per rubare l’argenteria, ma ti convince a regalargliela’ È questo il problema”.

Secondo lei, in che modo le istituzioni dovrebbero sostenere il lavoro di inchiesta dei giornalisti?

I giornalisti sono coloro che hanno il compito di formare l’opinione pubblica, con responsabilità ed etica professionale. Le istituzioni hanno il ruolo di governare la vita dei cittadini. Il fine è comune: l’interesse pubblico. Questi due poteri non si devono ostacolare a vicenda, altrimenti si crea un paradosso evidente. Il giornalismo deve essere il cane da guardia del potere, ma se accetta di essere il cane da salotto della politica, delle forze economiche, abdica al proprio ruolo. ‘Io ho un concetto etico del giornalismo – scriveva Pippo Fava, nel suo famoso editoriale ‘Lo spirito di un giornale’ –. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo’. Un’istituzione pubblica che si oppone a questo ‘Spirito’ non lavora per la comunità che è chiamata ad amministrare”.

Cosa consiglia ai giovani che vogliono scrivere di mafia ma che hanno paura di rimane isolati diventando bersagli delle organizzazioni criminali?

Mi sia consentita l’ironia: lo chiede a me? che da questo punto di vista rappresento il totale fallimento del giornalista d’inchiesta? Senza più una testata che accoglie i miei “pezzi”, non sono più un giornalista. Quando vengo chiamato a parlare ai futuri giornalisti, al Master dell’Università di Bologna spiego la mia teoria, che ho elaborato sulla mia pelle: un fatto, per diventare notizia, deve essere mediato da un giornalista; e il giornalista, per raggiungere i lettori, deve avere a disposizione una testata giornalistica che accolga il suo lavoro. Se manca uno di questi fattori, l’opinione pubblica non può essere in-formata. Un’altra considerazione riguarda le categorie del giornalismo; non esiste il giornalista antimafia, ma esiste il giornalista. Punto. Poi, capita di imbattersi in argomenti para-mafiosi pur essendo partiti da quanto di più lontano dalla mafia dovrebbe esistere; come successo a me. E lì non esistono consigli, ma bisogna muoversi in base agli strumenti e alle conoscenze che si hanno a disposizione. Sarà diverso il lavoro di un redattore strutturato, assunto in una redazione con tutte le garanzie del caso, rispetto al lavoro di un collaboratore esterno pagato 5 euro e 16 centesimo ad articolo, come capitava a me con la Gazzetta di Reggio. Eppure, per un articolo pagato con un trancio di pizza e una bibita, ho ricevuto una richiesta danni per 250mila euro; per un altro, sempre ricompensato con le vecchie 10.000 lire, sono stato querelato per diffamazione a mezzo stampa. Ho dovuto pagare di tasca mia un avvocato, per difendermi. Ho scritto di escavazioni abusive nel Po, di scarti di fonderia usati come sottofondo stradale, di una centrale elettrica che doveva essere costruita da imprenditori privati con il favore dell’amministrazione locale: e poi mi dicono che la ‘Ndrangheta doveva “sistemarmi”. Cosa c’entra la ‘Ndrangheta se all’epoca io scrivevo di politica locale e imprenditoria? Non ci sono consigli da dare, ai giovani che vogliono intraprendere la carriera giornalistica, in merito alla possibilità di rimanere isolati in primis proprio all’interno delle redazioni. Serve determinazione, ma non incoscienza; serve la paura, che deve essere vissuta con la possibilità di contrapporgli il coraggio; ci vuole la visione etica per scrivere quello di cui un domani – in tutta coscienza – non ci si pentirà ogni mattina, guardandosi allo specchio. Serve la forza necessaria a tenere la schiena dritta, e, se la schiena è rotta, bisogna ancora trovare dentro di sé la forza per stare dritti. ‘Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli», diceva ancora il Generale Dalla Chiesa. È così anche per il giornalista; che alla fine non è altro che un carabiniere armato solo della sua penna: e della sua anima, con la quale deve fare i conti in ogni momento”.