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La corruzione è la peggior piaga sociale

Negli ultimi decenni in seguito anche al grave e ripetuto manifestarsi dell’esclusiva natura criminale e dell’estrema pericolosità sociale delle organizzazioni mafiose e, conseguentemente, al crescere di una diffusa coscienza collettiva di rifiuto di forme di tolleranza e di pur tacita e passiva connivenza col fenomeno, è maturata nella Chiesa una chiara, esplicita e ferma convinzione dell’incompatibilità dell’appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana. E’ compito della Chiesa sia aiutare a prendere consapevolezza che tutti, anche i cristiani, alimentiamo l’humus dove alligna e facilmente cresce la mafia, sia indurre al superamento dell’attuale situazione attraverso la conversione al Vangelo, capace di creare una cultura antimafia fondata sulla consapevolezza che il bene comune è frutto dell’apporto responsabile di tutti e di ciascuno.

C’è l’urgenza di un grande ricupero di moralità personale e sociale e quindi di legalità con il contributo delle diverse parti sociali, civili, politiche e religiose, e soprattutto mediante una più convinta e decisa educazione delle coscienze di tutti. La crescita del senso della legalità ha come necessario presupposto un rinnovato sviluppo dell’etica della socialità e della solidarietà, attraverso regole di condotta che mettano in rapporto le libertà individuali con la ricerca della giustizia comunitaria. Il rispetto della legalità è chiamato a essere non un semplice atto formale, ma un gesto personale che trova nell’ordine morale la sua anima e la sua giustificazione.

Nel documento dei vescovi italiani del 1991 su Educare alla legalità si denuncia nel nostro Paese “l’eclissi della legalità”, che si manifesta innanzitutto nella “esplosione” della grande criminalità che negli anni novanta ha raggiunto il suo apice con una serie di attentati di stampo mafioso. È preoccupante anche l’aumento della micro-criminalità, del bullismo e, in tempi più recenti, del cyber bullismo, con una facile assuefazione a questi fenomeni, che rivela una rassegnazione e una sfiducia dei cittadini che vanificano il senso della legalità. Papa Francesco è più volte intervenuto sulla corruzione. L’8 novembre 2013 aveva parlato di “dea tangente”, avvertendo che la corruzione è come la droga, perché s’inizia magari con “una bustarella”, ma poi si arriva a una “assuefazione da tangenti”. Il 21 settembre 2017, Papa Francesco ricevendo la Commissione parlamentare italiana antimafia ha affermato che la corruzione, “ha una natura contagiosa e parassitaria”, perché “non si nutre di ciò che di buono produce, ma di quanto sottrae e rapina”. Il Pontefice mette in guardia dal “banalizzare il male”, osservando che “la corruzione trova sempre il modo di giustificare sé stessa, presentandosi come la condizione normale, la soluzione di chi è furbo, la via percorribile per conseguire i propri obiettivi”. Il primo ottobre 2017, a Cesena, Francesco affermò: “La corruzione– è il tarlo della vocazione politica. La corruzione non lascia crescere la civiltà”. Ed esortò i politici a mettere sempre al primo posto il bene comune, il servizio alla società piuttosto che il proprio interesse. La corruzione è la peggiore piaga sociale; più che perdonata, come si fa per un peccato del quale ci si pente, va curata”. La corruzione è il linguaggio, la forma espressiva primaria delle organizzazioni criminali. Dove è forte la corruzione, sono forti anche le organizzazioni criminali, a volte tanto forti da costituire l’unico vero potere in un’area geografica”. “Corruzione e mafia sono una cosa sola. Il reato di corruzione può esserci senza una struttura mafiosa alle sue spalle, ma una struttura mafiosa è sempre corrotta e sempre fa uso della corruzione”. Per la maturazione di questa mentalità sono stati importanti gli interventi dei vescovi e dei papi Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco, che hanno contribuito all’interpretazione e alla condanna della mafia dalle tradizionali e originali categorie cristiane.

Ricordiamo il grido accorato di Giovanni Paolo II ad Agrigento 30 anni fa il 9 maggio 1993: “Dio ha detto una volta ‘Non uccidere’.  Nel nome Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è Via, verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio”. Papa Francesco in molte occasioni si pronuncia contro la mafia. A Sibari il 21 giugno 2014 ha detto: “Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”. Papa Francesco non fa solo notare il peccato grave in cui si trovano i mafiosi. Egli dice che questa condizione di peccato dei mafiosi è anche un delitto penale che comporta la scomunica, perché c’è l’idolatria, l’adorazione del male, del denaro che prende il posto dell’adorazione per il Signore. Il Papa coinvolge nello stesso atto di condanna sia la ’ndrangheta sia la mafia, la camorra, la sacra corona unita e altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso, come a voler dire che si tratta di piaghe che non conoscono cittadinanza. A questa chiara coscienza di radicale incompatibilità tra mafia e vita cristiana e di conseguente rifiuto di ogni compromissione della comunità ecclesiale col fenomeno mafioso, la Chiesa siciliana non può non sentirsi legata, perché questo cammino storico della Chiesa siciliana è stato, suggellato dalla splendida testimonianza del martirio del beato don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia solo perché fedele al suo ministero e del magistrato Rosario Livatino  proclamato beato il 9 maggio del 2021.

La memoria di questi martiri è impegnativa per la Chiesa siciliana tutta. Il loro “martirio” è venuto a siglare questa stagione d’impegno ecclesiale, anche se questo martirio non va disgiunto e isolato da quello di numerosi altri uomini tra cui alcuni magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine che Giovanni paolo II definì “martiri della giustizia”. La Chiesa, non può limitarsi alla denuncia del fenomeno mafioso, per la prevalente preoccupazione di parlare all’opinione pubblica, ma deve rivolgere il pressante appello e dare un vero aiuto alla conversione, facendo prevalere la preoccupazione di parlare alle coscienze. Nel caso del mafioso, la conversione comporta un impegno fattivo affinché sia debellata la struttura organizzativa della mafia. La conversione non può essere ridotta a fatto intimistico, ma ha sempre una proiezione pubblica ed esige comunque la riparazione. Alla comunità cristiana si richiedono dei gesti originali che portino ad una prevenzione dei reati collegati col fenomeno mafioso impegnandosi per la diffusione di una cultura della legalità e all’educazione a non fare del denaro e della ricerca smodata del potere gli idoli cui sacrificare tutto dalla vita delle persone.

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