CORRUZIONE, UN PAESE VENDUTO

Bustarelle passate sottobanco per ottenere una licenza, conti in banca rimpinguati per l’assegnazione di una commessa pubblica, e poi promesse, raccomandazioni, occhiolini e ammiccamenti. Raffaele Catone lo ha definito “il male italiano” per eccellenza, più della mafia, con cui vanta pericolosi rapporti di parentela. La corruzione è un parassita che si annida nei rapporti fra imprenditoria, politica e amministrazione; tra le pieghe di un sistema debole depone uova dalle quali nascono larve pronte a nutrirsi di quanto resta dell’apparato statale. Una metafora cruda ma tremendamente reale di un fenomeno devastante, non solo da un punto di vista morale ma anche economico. Secondo gli ultimi dati diffusi da Unimpresa mazzette e affini dal 2001 al 2011 ci sarebbero costate circa 100 miliardi di euro, facendo diminuire l’export del 16% e lievitare il costo degli appalti del 20%. Nell’ambito dell’Unione Europea il suo ammontare è stato calcolato in 120 miliardi, cioè circa l’1% del Pil realizzato dai 28 Paesi. A trainare la classifica degli Stati più virtuosi per legalità negli apparati pubblici (stilata da Transparency International) c’è la Finlandia, seguita da Olanda e Lussemburgo. L’Italia, invece, è ultima, battuta persino dalla Grecia, che ha lo stesso indice di corruzione (43 su 100) ma ci supera perché, rispetto all’ultimo ranking mondiale del 2009, ha guadagnato due posizioni, mentre il Bel Paese ne ha perse 6.

A livello globale, giusto per capirci, siamo sullo stesso piano di Brasile, Bulgaria, Senegal e Swaziland. Una posizione tutt’altro che onorevole, frutto dei grandi scandali degli ultimi anni. Dalla torta di Expo, su cui si è affacciata golosa la costola lombarda della ‘ndrangheta, alle tangenti del Mose sino all’ultima vergogna, quella della Grandi Opere (in particolare la Tav), architettata da una combriccola di imprenditori e amministratori statali (che ha portato alle dimissioni del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, non indagato ma comunque in una posizione scomoda visti i rapporti personali mantenuti con alcune delle persone coinvolte).

Ma quando si parla di corruzione si commette un errore: credere che si tratti di un problema limitato alla classe dirigente. Il fenomeno è, invece, più vasto di quanto si immagini e parte dal pensiero comune in Italia che tutto, compreso l’obbligo di fedeltà dovuto dagli amministratori pubblici, abbia un prezzo. Così scopriamo (dati Censis) che più di 4 milioni di cittadini sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un’autorizzazione o accelerare una pratica e almeno 800mila hanno fatto un regalo a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore. A muovere questi conati corruttivi c’è dunque la convinzione che lo Stato sia in vendita, uno schiaffo all’onestà di chi ha contribuito col sangue e idee nobili a costruire la Repubblica. Un trend turpe ma agevolato dalle mille e più disfunzioni del leviatano statale. Secondo il 50,5% degli italiani la pubblica amministrazione funziona male, per il 63,5% nell’ultimo anno non è cambiata e per il 21,5% è addirittura peggiorata. Per invertire la rotta il 45,3% degli intervistati pretende il pugno di ferro per punire corrotti e fannulloni.

Un messaggio chiaro spedito al Parlamento che giusto in questi giorni sta accelerando sul ddl Grasso dopo un lungo periodo di gestazione. Lentezza istituzionale dovuta alla necessità di comporre le esigenze dei partiti, divisi come al solito fra giustizialisti e garantisti, più per motivi di bottega che non per il bene del Paese. Tuttavia procedere alla chetichella significa non tener conto dell’emergenza in atto. Giusto stasera Sky manderà in onda “1992”, fiction dedicata a Tangentopoli. A vederla davanti alla tv ci sembrerà di guardare un documentario d’archivio. Craxi, Forlani, Hotel Trivulzio, Mario Chiesa, nomi e luoghi appartenenti al passato. Ma mentre gli uomini passano la corruzione muta come un virus e diventa sempre più aggressiva. “Oggi è anche peggio di allora” ha detto Cantone. Benvenuti in Italia.