Come fare perché la scuola italiana raggiunga gli standard europei

La gente di scuola se lo ricorderà come un termine ante e post quem. C’è un prima e c’è un dopo. Così come c’è un prima e c’è un dopo l’11 settembre 2001 o il 9 maggio 1978. Mi riferisco al 21 febbraio 2020. L’ultimo giorno di scuola in presenza dell’anno scolastico 2019/2020. A pensarci bene, l’espressione scuola in presenza non era mai stata coniata. Giustamente: la scuola è in presenza, dato ovvio, impensabile il contrario. Quel 21 febbraio 2020 ha sparigliato le carte e ha fatto crollare tante certezze. Docenti e alunni si sono salutati al suono della campanella di quel venerdì, scambiandosi gli auguri per il weekend, ignari di tutto quello che sarebbe accaduto in seguito. Tra sperimentazioni di piattaforme telematiche, collegamenti per riunioni a distanza negli orari più improbabili, sabato e domenica compresi, nuovi acronimi, nuove modalità di approccio alla didattica, nuove forme di Esame di Stato, presidi e docenti sono arrivati stremati alla fine dell’anno scolastico. Come se sopra di loro fosse passato un treno merci. E, ancora una volta, si andava verso l’ignoto, in una sorta di bolla, fatta di attese e di speranze di tornare alla normalità. Del resto, con l’avvicinarsi dell’estate i contagi erano scesi.

I presidi (mi si consenta di usare ancora questo termine), però, erano all’erta: sapevano, come sempre hanno saputo e come sempre sanno, che settembre era alle porte e troppi nodi erano ancora da sciogliere: fabbisogno di docenti, potenziamento dei mezzi di trasporto locale, studio di protocolli sanitari che potessero garantire la ripresa in sicurezza, disposizione dei banchi, distanziamento. Se ci ricordiamo, il metro era divenuto lo strumento di lavoro quotidiano: era più facile trovare un preside con un metro in mano, piuttosto che con un timbro. Ancora, se ricordiamo bene e non facciamo passare tutto nel dimenticatoio, le indicazioni “definitive” arrivarono il 6 agosto, a meno di un mese dalla ripresa. Il risultato? Tra quarantene e zone rosse la DAD ha interessato gli studenti italiani, dalla 2^ Secondaria di 1° grado, quasi per l’intero anno scolastico 2020/2021.

A quasi un anno esatto di distanza, però, possiamo dire che la situazione è radicalmente mutata. La scuola è stata realmente posta al centro dell’attenzione del Governo e del Parlamento. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. E’ stato lo stesso ministro Bianchi, all’inaugurazione di LEF, a ricordarli: le cattedre rimaste vacanti sono state coperte, la campagna vaccinale per il personale scolastico ha dato ottimi risultati, il contatto con il CTS è costante al fine di garantire la sicurezza e la prosecuzione della didattica in presenza per tutti gli studenti, come unica garanzia per un reale apprendimento. Il rapporto INVALSI ha, infatti, messo impietosamente in luce le falle non solo di due anni di DAD ma anche di un sistema scolastico giunto al collasso. Sono sicura che chi vive all’interno del mondo della scuola abbia potuto cogliere il cambio di rotta in atto.

Ora occorre non fermarsi ma portare a termine quel processo di cambiamento che la scuola attende da decenni e che la possa traghettare verso una reale autonomia, perché sia garantita, nei fatti, alla famiglia, la libertà scelta educativa e, ai docenti, la libertà di insegnamento. Solo così la scuola italiana potrà raggiungere gli standard europei e uscire da quella palude nella quale è sprofondata. La deprivazione culturale di certe aree della Penisola ha raggiunto percentuali allarmanti. Il nuovo passo dettato dal Governo può davvero realizzare il cambiamento che i cittadini onesti attendono da anni. Le forze politiche, le parti sociali, i più vasti settori della cultura e dell’economia devono collaborare: da quello che facciamo oggi per la scuola dipende il futuro della nostra società. Se non ora, quando?