Ridurre il fisco per rilanciare il lavoro

Quando Matteo Renzi presentò il suo progetto di governo, la riforma del lavoro fu uno dei punti fondanti tanto da essere rinominata, all’americana, con un appellativo immaginifico come Jobs Act. L’idea di base era tutt’altro che criticabile: sbloccare il mercato del lavoro e favorire sia la creazione di nuovi posti di lavoro sia la riduzione di quella “precarietà”, termine molto usato in certi ambienti politici, che è conseguita a tutte le innovazioni normative che, dal “pacchetto Treu” ad oggi, si sono susseguite in relazione al tema lavoro.

Dopo che, per anni, ci si è lamentati della scarsa flessibilità del mercato italiano, dovuta principalmente all’impianto molto rigido dato dallo Statuto dei Lavoratori (la Legge 300/70) e al costo eccessivo che il rapporto di lavoro subordinato rappresenta sui conti economici dei datori di lavoro, da metà anni ’90, per ovviare a questo sistema che stava divenendo insostenibile, sono nate nuove tipologie di contratto, a termine o a progetto, che, di fatto, non hanno contribuito a un vero rilancio dell’occupazione ma sono serviti, soprattutto, per contenere i costi e ovviare alla difficoltà di licenziamento che la Legge 604/66 e la disciplina sanzionatoria dell’art.18 dello Statuto imponevano alle aziende medio-grandi, almeno fino alla Legge Fornero.

Il Jobs Act si presentò come un insieme di norme che avrebbe dovuto mettere ordine nel mercato del lavoro rendendolo più dinamico e si strutturò principalmente su tre driver:

– Contratti di lavoro (L. 183/2014), con l’introduzione del contratto “a tutele crescenti”;

Nuova disciplina dei licenziamenti individuali (D.lgs. 23/2015);

– Nuova disciplina relativa agli ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria (D.lgs. 22/2014).

Al di là della mera contestazione politica che si è levata sia dall’opposizione di centro-destra sia dall’ala più radicale della sinistra, i dati statistici parrebbero dare ragione all’impianto che si è messo in atto; il tasso di disoccupazione, infatti, è sceso dal 12.7% del 2014 all’11% dell’ultima rilevazione Istat ma, ancora più importante, il tasso di occupazione, cioè il rapporto tra i soggetti attivi su tutti i residenti in Italia, è salito di tre punti percentuali nello stesso periodo considerato, dal 55.4% al 58.4%, che, per chi non fosse pratico di questi indicatori, significa che non solo si è ridotto il numero di persone che cercano lavoro ma è aumentato pure il numero della gente attiva.

A fronte di questo sembrerebbe, quindi, che il Jobs Act funzioni ma, nonostante questo, non ha saputo veramente toccare e risolvere i punti più critici legati all’occupazione e il miglioramento dei dati potrebbe benissimo essere dovuto a un fattore congiunturale più che alle nuove norme.

Pur avendo voluto favorire le assunzioni a tempo indeterminato con le “tutele crescenti”, infatti, in Italia continuano ad esistere circa 40 forme contrattuali per i lavoratori (para)subordinati; per impedire abusi di diritto relativi alle forme di lavoro subordinate e semplificare la gestione delle posizioni da parte degli uffici del personale, la soluzione più efficiente sarebbe ridurre le forme contrattuali a 3: contratto a tempo indeterminato, contratto d’inserimento/apprendistato, contratto a tempo determinato/stagionale, cosa che favorirebbe anche una maggiore certezza contrattuale sia dal lato del datore sia dal lato del lavoratore.

Dal lato della disciplina sui licenziamenti individuali, già la precedente Legge Fornero, come già ricordato, modificò l’impianto relativo ai licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, in maniera strutturale, eliminando l’obbligo di riassunzione e normando nuovamente il risarcimento da corrispondere all’ex dipendente, con la nuova disciplina la cosa diventa ancora più chiara stabilendo i limiti del risarcimento sulla base dell’anzianità di servizio e fissando un cap per le piccole aziende ma che, a tutti gli effetti, non porta delle grandi differenze rispetto al periodo precedente poiché la presunta rigidità data dall’art. 18 è sempre stato più un totem politico, sia per abolizionisti sia per “conservatori”, che un reale caveat nella creazione di nuovi posti di lavoro.

Successivamente non si è intervenuti sulla contribuzione obbligatoria e sul carico fiscale legato al tema del lavoro dipendente, il celeberrimo “cuneo fiscale”, per rendere le assunzioni più convenienti alle imprese; da qui discende anche l’insufficiente azione sugli ammortizzatori sociali. Va bene rimodulare in maniera, probabilmente più efficiente, l’assegno di disoccupazione, ma senza un intervento di più largo respiro che porti all’abolizione della Cassa Integrazione Guadagni per ridurre la contribuzione obbligatoria, a nulla servirà alcun provvedimento. La Cig, infatti, è un inutile orpello ideologico con cui si tenta di tutelare il posto di lavoro e non il reddito, attraverso questo meccanismo molte aziende hanno posto a carico dello Stato le proprie inefficienze strutturali e attuato, così, le ristrutturazioni interne a carico della comunità; una vera riforma avrebbe dovuto avere il coraggio di affermare che se un’impresa non riuscisse a reggersi da sola sul mercato dovrebbe fallire e compito dello Stato, tramite la fiscalità generale, sarebbe eventualmente quello di tutelare la transizione del personale dipendente da un posto di lavoro ad un altro, mediante un assegno di sostegno al reddito e mediante un eventuale percorso di crescita professionale da effettuarsi nei tempi morti. Stesso discorso bisognerebbe applicarlo a quelle aziende con eccesso di personale che sono costrette a licenziare, con le eventuali conseguenze anche giuridiche del caso.

In definitiva, si può affermare che il Jobs Act sia, tutt’oggi, un’opera incompiuta, come lo sono state tutti i tentativi di “riforma” del lavoro avvenute da metà anni ’90 ad oggi, e non pare azzardato affermare che finché in Italia non si strutturerà un percorso organico di riduzione del costo dello Stato e, conseguentemente, un’opera di riduzione drastica dell’imposizione fiscale su tutti gli aspetti che riguardino l’economia (dall’energia alla logistica, dalle attività produttive ai costi indiretti legati alla struttura burocratica), ogni intervento relativo al settore occupazionale potrà avere un effetto nel breve termine, ma a livello di sistema sarà semplicemente un placebo.