Il prefisso “anti” che caratterizza gli italiani

In tanti attribuiscono a Massimo D’Azeglio, predecessore di Cavour alla guida politica del Regno di Sardegna da cui nacque il Regno d’ltalia, la storica frase: “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”; ci si riferiva certamente alla enorme divisione tra nord e sud della penisola, da sempre soggiogati da dominazioni straniere spesso rivali, ma forse anche alla profonda differenza di pensiero che c’è tra gli italiani anche della stessa regione, sempre divisi su tutto, bastian contrari per antonomasia, non solo tifosi della propria squadra ma spiccatamente oppositori di quella avversaria, contestatori intellettuali e sentimentali a prescindere, sostanzialmente mai uniti.

La storia dall’unità d’Italia lo dimostra in maniera immediata: dalla questione meridionale all’opposizione tra destra e sinistra storica, dalla contesa tra Crispi e Giolitti alla divisione tra interventisti e neutralisti della prima guerra mondiale, dall’antifascismo alla guerra civile, dalla litigiosità tra i partiti della prima repubblica alla opposizione intransigente tra i due poli del sistema maggioritario solo per rimanere in politica: ma la distinzione e la contrapposizione dilagano in ogni settore della vita di relazione degli italiani, dalla tifoseria alle corporazioni, ai sindacati, alle abitudini alimentari, tanto che solo tra gli italiani è coniato il prefisso anti che caratterizza non tanto l’appartenenza ad una fede, politica sportiva o culturale, quanto l’opposizione alla fede altrui.

È difficile trovare la radice storica in questa divisione cronica che si manifesta anche nelle più banali scelte organizzative della vita pubblica: sembra quasi che ci sia un particolare gusto ad opporsi alle proposte altrui che necessariamente provoca intransigenza e rigidità. Se da una parte questa chiusura al pensiero altrui costituisce un rafforzamento della propria identità culturale, motivo che viene sbandierato per giustificare la presa di posizione, dall’altra occorre dare atto che un simile atteggiamento costituisce un ostacolo insormontabile non solo al dialogo ed allo sviluppo ma anche al quieto svolgimento del normale flusso della vita quotidiana ed alla serena affermazione dei principi condivisi.

Ne è prova l’atteggiamento cui stiamo assistendo in questa recente esperienza collettiva determinata dal sopraggiungere di una emergenza patologica: mentre i paesi stranieri assecondano le disposizioni emanate per regolare il contenimento della diffusione virale, in Italia si assiste, da un canto, ad un proliferare di disposizioni emanate a ritmi esponenziali, che travalicano ogni umana possibilità di prenderne anche solo visione e cercare di tracciare un criterio affidabile di andamento e, dall’altro, ad una sistemica opposizione con negazione addirittura della sussistenza dell’emergenza, confinando in tesi complottistiche che, seppure avessero un minimo fondamento di verità, ne escono travisate secondo le più svariate e strampalate teorie.

Sicuramente l’incertezza della classe dirigente – anche giustificabile per la novità della situazione – non aiuta a trarsi d’impaccio: sia d’esempio che sul sito del Ministero dell’Interno è pubblicato il bollettino quotidiano dell’andamento nazionale della pandemia ma le morti dichiarate sono indicate in attesa di conferma sull’effettiva causa del decesso, con ciò creando quella che viene definita una contraddizione in termini poiché non si conosce se le morti attribuite alla diffusione virale siano effettivamente tali! Con buona pace dei tanti che hanno visto perdere i propri congiunti senza avere la possibilità neanche di salutarli ed oggi sentono ufficializzarsi la negazione della epidemia.

Dall’altra parte le mascherine, indicate come obbligatorie pure in assenza di una legittima disposizione legislativa che si fa fatica ad immaginare stante il contrasto con la incoercibilità della prestazione sanitaria; non si riesce ad avere chiarezza se l’uso è per proteggere chi la indossa (ed in tal caso il contrasto con la libertà individuale alle cure è evidente) oppure per proteggere l’ambiente in cui ci si reca. Non si comprende neanche perché se ne vede l’uso diffuso per le strade ed all’aria aperta, piuttosto che l’obbligo per entrare al ristorante fino al tavolo ma poi è consentito rimuoverla, ovviamente per mangiare. Girano sui social foto di evidenti contraddizioni poiché in aereo i posti sono tutti occupati mentre a teatro c’è un distanziamento mortificante per il numero di spettatori ammesso. Sembrava che il virus non reggesse alla calura estiva, che è giunta puntuale, ma non pare che il livello di guardia sia calato; vengono imposte misure restrittive in località che non hanno neanche un contagiato, vengono imposte limitazioni ad alcune attività o manifestazioni e vengono tenute fuori altre che pure avrebbero motivo di pericolo di contagio. Si vedono le mascherine al mare! Con buona pace della preservazione dell’ambiente oggi invaso da una massa enorme di mascherine da smaltire.

E si crea quindi, una sostanziale divisione tra chi non solo le indossa ma pretende, spesso anche con particolare veemenza, che siano indossate anche dagli altri e chi invece le disdegna e non le usa anche in ambienti necessariamente chiusi ed affollati. E via alla relativa contrapposizione tra le opposte fazioni, entrambe pronte ad accusare l’altra di ogni dissacrazione ostentando la propria appartenenza.

Come spesso la verità è nel mezzo: un po’ di chiarezza dai titolari delle competenze specifiche, e mi riferisco non ai medici ma agli specialisti in virologia che esercitano funzioni effettive nei luoghi di studio, di ricerca e di assistenza, un adeguamento a tali univoche indicazioni con semplici disposizioni giuridicamente legittime, il rispetto per le esigenze personali, lavorative ed economiche di ciascuno ma affidate alle rappresentanze legali e tanto tanto buon senso che sembra davvero mancare alla radice.