Iraq, il patriarca Sako: “Dal sangue dei martiri nuova linfa per la Chiesa”

Iraq

C'è stato un momento, non troppi anni fa, in cui i cristiani del Vicino Oriente iniziavano la loro marcia forzata lontano dalle loro terre, in direzione di campi di provvisoria accoglienza, cercando di sfuggire all'improvvisa e violenta avanzata delle milizie jihadiste di un sedicente Stato islamico. In Europa arrivarono distintamente, ma alla stregua di un'eco, i nomi di Mosul, di Ninive e di altri luoghi dove l'odio scellerato strappava brandelli di speranza, azzerando gli sforzi della tolleranza e del dialogo. Oggi quelle roccaforti sono crollate, la riconquista del territorio dell'Iraq ha lasciato il posto a nuovi conflitti, prolungando oltremodo la difficile crescita di un Paese posto per 35 anni sotto un regime e per un altro lustro soggetto al giogo del terrore. Una terra in cui, tuttavia, i germogli della speranza continuano a sorgere qua e là, alimentando il bisogno della Chiesa di farsi prossima alle piaghe di un popolo che ha guardato negli occhi la persecuzione. A Interris.it la testimonianza di Sua Beatitudine il Cardinal Louis Raphael I Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei: “Sono convinto che un futuro ci sarà”.

Eminenza, il popolo iracheno ha vissuto per lungo tempo la difficile stagione dell'invasione delle milizie jihadiste, che ha provocato enormi sofferenze in tutto il Paese. In particolare la minoranza cristiana è stata per la maggior parte costretta a un esodo forzato dalle proprie terre, lasciando un vuoto che sembra difficilmente colmabile. Qual è oggi la situazione delle comunità cristiane in Iraq?
“Lungo la storia, la cristianità orientale ha vissuto la persecuzione. In Iraq, in Siria, prima da parte dei persiani, poi dei jihadisti musulmani della Penisola araba, venuti come guerrieri e forzato la gente a convertirsi all'Islam o, in alternativa, a pagare la tassa Jizya. A quel tempo la grande maggioranza era cristiana ma non c'era una formazione profonda e cosciente della fede: per salvare la loro vita e le loro proprietà si sono convertiti, anche se un nutrito gruppo è rimasto ed è sempre stato considerato fuori dallo stato musulmano, discriminato anche attraverso norme e leggi. Quando l'Islam è arrivato in Iraq, la storia ci dice che i cristiani fossero 7 milioni. E viene da chiedersi quanti sarebbero potuti essere oggi… Ora siamo circa 500 mila nel Paese, prima della caduta del regime un milione e mezzo”.

Un quadro radicalmente mutato in un periodo di tempo relativamente breve…
“Dopo la caduta del regime, tutto il popolo iracheno ha sofferto il disordine, la vendetta, perché questa classe venuta da fuori era animata da questo sentimento, non dal desiderio di sviluppo. Ritengono di essere stati offesi e, per questo, di avere diritto su tutto. Gli americani hanno sciolto l'esercito, la polizia… l'Iraq ha aperto le frontiere e i fondamentalisti sono entrati nel Paese. Il mosaico era contagiato da fuori, perché gli iracheni per 35 anni hanno vissuto sotto un regime secolare: alla fine Saddam, dopo la guerra con l'Iran, ha mostrato la sua simpatia verso il movimento religioso musulmano ma per lunghi anni non c'è stato nulla, vigeva una sorta di civiltà e gli iracheni si sono formati sulla base di questa convivenza: c'era un dittatore ma anche una sicurezza, le scuole, le università e i servizi funzionanti. Dopo tutto è cambiato, caduto, i fondamentalisti di al-Qaeda hanno attaccato chiese e moschee. L'Isis è stato il culmine del male. E 120 mila cristiani hanno lasciato le loro case, vivendo come sfollati nel Kurdistan, alcuni abbandonando il Paese cercando una sicurezza e la possibilità di formare i loro figli.

Oggi qual è la situazione in Iraq? Negli ultimi mesi il Paese è entrato indirettamente nell'aspro confronto fra Iran e Stati Uniti, vedendo aumentare esponenzialmente i fattori di instabilità…
“Finora non c'è stata stabilità, né servizi né un governo forte che abbia piani per un cambiamento positivo, lavoro, servizi sanitari e scolastici. Le scuole e le università hanno fatto una marcia indietro, le persone sono stanche e l'espressione di questo malcontento sono questi giovani delusi, che manifestano per chiedere i loro diritti per una vita degna in un contesto dove tutto è settario e diviso. I giovani sono una speranza per il futuro anche se hanno pagato il prezzo delle loro rivendicazioni: più di 600 morti, 25 mila feriti… Ammiro il loro coraggio, non hanno paura perché per loro la vita, nelle attuali condizioni, significherebbe essere persi. E se anche perdono la loro vita è lo stesso: per questo hanno coraggio, rifiutano il settarismo e le autorità religiose che intervengono nella politica, la corruzione totale che devasta il Paese. A 16 anni dalla caduta del regime, dove sono i progetti? Dov'è andato il denaro? E noi siamo un Paese ricco… Quanti morti? Noi cristiani siamo una parte di questo mosaico ma come minoranza siamo sensibili a tutto questo”.

La difficoltà maggiore risiede dunque non solo nella mancata predisposizione al dialogo della maggioranza islamica ma anche nello scetticismo a un confronto con sé stessa…
“Il sistema religioso è legato a un islam del VII secolo che non funziona oggi. Non si aprono alla modernità, forse per paura di un confronto. Noi viviamo in città pluraliste, dove ci sono diverse religioni ed etnie: ciò che doveva unire gli iracheni era la cittadinanza uguale per tutti. Questo non si è verificato: i musulmani appartengono alla prima classe, godono di una priorità persino nei posti di lavoro. C'è una vera discriminazione. Il governo è molto debole, ci sono milizie e mafie che confiscano case, proprietà e terreni di cristiani e musulmani. Pe recuperare questo ci vuole molto lavoro, alcuni hanno persino falsificato dei documenti”.

In tanti hanno lasciato l'Iraq o sono stati costretti a rifugiarsi nei campi profughi a seguito dell'avanzata di Daesh. E' stato ipotizzato che la recente escalation fra Usa e Iran potesse riportare in auge le milizie jihadiste, inaugurando una nuova stagione di terrore e sofferenza. C'è la possibilità di vedere un progressivo ritorno dei cristiani emigrati?
“Forse ma non sarebbe un ritorno in massa. Alcune famiglie potrebbero ritornare se dovessero riscontrare un minimo di stabilità e sicurezza. Non c'è futuro per questi Paesi se non c'è un aggiornamento religioso. Se non si esce da questo sistema tradizionale non si può cambiare, perché c'è una contrazione fra i principi religiosi e quelli politici. La religione ha un messaggio spirituale ma nella politica ci sono cittadini che non credono, che non vogliono la religione. Io invito sempre le autorità musulmane ad approfittare dell'esperienza della Chiesa, che ha fatto un aggiornamento, dei cambiamenti, adeguandosi alla cultura di oggi. D'altronde, come parlare alla gente con un linguaggio comprensibile delle leggi che sono state di una Chiesa primitiva o di un Islam del VII secolo nato nel deserto? Oggi i musulmani vanno all'università, la loro vita è modernizzata. Il compito dei musulmani è questo: forse non arrivano ancora a comprenderlo ma non c'è altra soluzione”.

Il convegno di Bari, “Mediterraneo frontiera di pace”, è stata un'importante occasione di incontro fra le diverse espressioni della Chiesa cristiana. Secondo lei può essere uno slancio rilevante al fine di una presa di una definitiva presa di coscienza sulla necessità di un'azione comune?
“Prima di tutto la Chiesa deve essere forte e non avere paura, nemmeno se siamo in una minoranza. Con la nostra fede, il nostro amore, la nostra apertura. Dobbiamo portare l'annuncio del Vangelo. Nessuno di noi può fare da solo, il mondo è molto complicato, le sfide sono grandi e noi, quasi 60 vescovi, ci siamo riuniti per un tempo forte di riflessione, parlando con molta libertà: la cura, la volontà di fare assieme, abbiamo fatto una panoramica delle nostre realtà e le nostre sfide, ognuno secondo il suo Paese e la sua gente. Quale atteggiamento dobbiamo mantenere? Io ho proposto un nuovo vocabolario, una nuova teologia che parli ai giovani nella loro lingua. Dobbiamo cercare insieme, come Chiesa, di rinnovare le liturgie affinché diano spazio alla speranza, alla gioia, senza fare riti tristi. Anche la presenza del Santo Padre è stata importante: ha parlato dell'ingiustizia, dell'industria delle armi, delle migrazioni, della dignità umana ma anche delle Chiese, che sono responsabili in ciò che succede e non devono credere che vada sempre tutto bene. Tante volte ho insistito affinché una volta tornati nei rispettivi Paesi e diocesi venga dato seguito a quanto ci si è proposto. Ci vogliono comitati per tradurre ciò che si è detto: io ho avanzato la proposta di delegazioni Cei nei nostri Paesi, possiamo aiutare chi ha perso la propria fede a riflettere sulla propria esistenza. C'è una speranza se tutti hanno la volontà di fare qualcosa”.

Il popolo iracheno, costretto a fare i conti con condizioni di emergenza pressoché continua, crede nel sostegno della Chiesa?
“Sì, molto. Noi abbiamo bisogno di un aiuto materiale ma è più importante rinnovare un sistema tribale. Nella nostra cultura ciò che abbiamo è un appoggio umano, spirituale e anche politico, fare pressioni sulla politica internazionale per far sì che siano rispettati i diritti dell'uomo in questi Paesi. Abbiamo una responsabilità morale verso questi Paesi che soffrono e che non hanno ricevuto l'aiuto necessario per modernizzarsi: l'uomo è uno e anche la Chiesa è una sola, non si può parlare di Chiesa orientale od occidentale. E se ci sono differenze di tradizioni e liturgie, sono legate alla cultura o alla lingua, non significa essere diversi. Anche una piccola Chiesa locale è una Chiesa universale: così possiamo dare un impulso dinamico come il Santo Padre sta facendo. Parla un linguaggio nuovo, con la sua semplicità, umiltà e accoglienza che soprattutto per i più poveri. Dobbiamo aprire gli occhi”.

Il Santo Padre ha manifestato il desiderio di recarsi in Iraq. Lei stesso ha detto che al momento non è possibile ma che c'è una speranza per il futuro. Ritiene davvero possibile vedere la presenza del Santo Padre sul suolo iracheno?
“Credo di sì. Due settimane fa abbiamo avuto l'udienza particolare assieme ai cinque patriarchi cattolici orientali e mi ha chiesto quando sarebbe potuto venire in Iraq. Si tratta di una visita molto attesa, in cuor suo ma anche per noi: ci darà il coraggio per confermarci nella fede e nel nostro impegno patriottico per l'Iraq e magari aiutare la riconciliazione di questo popolo. In questo senso, è stata importante la firma del trattato di al-Azhar con i sunniti e sarebbe importante farlo anche l'autorità sciita, cosicché tutto l'Islam si ritrovi con un patto firmato e un punto di partenza per una nuova fase di rapporti fra le religioni, per un vero dialogo sincero e non formale”.

Un documento che ha assunto una rilevanza prevalentemente sul piano simbolico ma che racchiude una linea guida importante…
“Questo documento non è molto conosciuto ed è soprattutto per noi orientali. Qui i musulmani rappresentano una minoranza, ma per noi costituisce il futuro. Ed è importante svilupparlo insieme a i musulmani, formare comitati per studiarlo, per tradurlo, dare anche più spazio a un documento di cui si sa ancora troppo poco, nonostante sia il primo, dopo secoli a riguardare sia i musulmani che i cristiani”.

E questo nonostante un contesto di globalizzazione che, di per sé, dovrebbe contribuire ad avvicinare persone fra loro diverse ma che, a quanto sembra, a volte sembra scavare ulteriormente nel solco delle differenze…
“Penso che dobbiamo approfittare dei mass media anche per evangelizzare, come fanno anche loro che hanno canali televisivi, radio… Del resto, i mass media hanno a forza per cambiare: ad esempio, in Arabia Saudita è proibito introdurre il Vangelo ma su internet è accessibile. E' importante conoscere un linguaggio adatto, utilizzare un vocabolario accessibile”.

In Paesi così in difficoltà, c'è la tendenza a sentirsi vulnerabili? C'è bisogno di ricostruire il tessuto sociale di questi popoli?
Noi aiutiamo tutti, senza distinzioni. Abbiamo portato cibo e medicine agli sfollati musulmani i quali ci hanno detto: 'Noi sappiamo che il vostro Dio è amore'. Non c'è bisogno di dire delle parole, la carità parla da sé. Io, come cristiano, sono andato ad aiutare qualcuno che non mi considera come lui che, a sua volta, si domanderà perché l'ho fatto. Non è una debolezza ammettere che è un mio fratello: la misericordia è per tutti noi. Il gesto di Papa Francesco, quando è andato in Grecia, prendendo quattro famiglie musulmane sfollate dalla Siria, portandole in Vaticano con l'aiuto del Sant'Egidio, ha lanciato un messaggio fortissimo: l'uomo è l'uomo”.

La presenza di Daesh ha causato un importante esodo dalla Piana di Ninive, forse il luogo simbolo, assieme a Mosul, del martirio dei cristiani iracheni. E' difficile convincerli a investire nuovamente nel loro futuro in quelle terre?
“C'è una minoranza molto dinamica oggi. Abbiamo una coscienza di una vocazione. Ci sono delle sofferenze ma non è la fine del mondo: siamo lì perché il Signore ha un piano per noi. E io sento che i cristiani in quelle terre sono forti. Nella Piana di Ninive, la metà degli sfollati sono ritornati, a Mosul meno perché i cristiani di quella città non hanno fiducia per la loro sicurezza. Ora ci sono quaranta famiglie ma il futuro sarà diverso: la libertà di coscienza verrà, dobbiamo avere speranza nel Signore. Anche la prima Chiesa era una minoranza. La Chiesa caldea è andata in India e in Cina a predicare il Vangelo e vi ha trovato dei cristiani. Abbiamo poi avuto diocesi in Iran, in Turchia, nel Golfo, da dove vengono i migliori padri spirituali. Dobbiamo avere questa fiducia: il sangue dei martiri porta il seme di una nuova Chiesa. Io sono convinto del futuro, forse non lo vedrò ma sono sicuro che ci sarà”.

C'è qualcuno che vi aiuta in questo percorso? Riscontrate un germoglio di speranza nel dialogo con la maggioranza islamica tollerante?
“Ci sono musulmani aperti, non tutti fanno parte dell'Isis. Alcune autorità musulmane condannano tutto questo, non tutto è nero. Anche loro ne soffrono e forse più di noi”.