Dal Sudan in fiamme al calvario nel deserto: le voci della migrazione

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Dalla guerra civile in Sudan alle tragedie della migrazione nel deserto. A Khartoum migliaia di cadaveri sono in decomposizione. Gli obitori sono al collasso a causa di interruzioni di corrente e insufficiente capacità di conservare i corpi. Esponendo così famiglie e bambini a un rischio crescente di malattie. “Save the Children” lancia l’allarme nella capitale del Sudan devastato dalla guerra. Da quando è scoppiato il conflitto ad aprile il caos si è aggravato. Gli scontri che nelle ultime settimane si sono intensificati nelle strade della città. La prolungata mancanza di energia elettrica ha lasciato gli obitori della città senza refrigerazione. Con la conseguente decomposizione dei corpi a causa del caldo. Una situazione che espone la popolazione della città al rischio di gravi epidemie. Inoltre, non è rimasto personale medico negli obitori. I corpi sono stati lasciati esposti e senza cure. Degli 89 principali ospedali della capitale e delle regioni del Paese, 71 sono fuori servizio. Mentre il resto funziona parzialmente. Alcune strutture sanitarie sono state occupate da gruppi armati. Una presenza che sottrae cure salvavita a milioni di minori e alle loro famiglie.
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Foto: UNICEF

Sudan nel caos

Ci sono stati almeno 53 attacchi contro le strutture di assistenza sanitaria. E hanno provocato 11 morti da aprile. Un’orribile combinazione. Fra numero crescente di cadaveri, gravi carenze idriche. Servizi igienico-sanitari non funzionanti e mancanza di possibilità per il trattamento dell’acqua. Tutto ciò sta facendo salire anche il timore di un’epidemia di colera in città. Manca un laboratorio di sanità pubblica funzionante attraverso il quale verrebbe normalmente segnalata un’epidemia di colera. Un’assenza che rende difficile valutare lo stato della crisi. Khartoum sperimenta tipicamente epidemie di colera durante la stagione delle piogge annuale, iniziata a giugno. E questo rende molto concreta la possibilità che si ripresenti. In tutto il Paese, almeno 2.435 minori sono stati uccisi o feriti dall’inizio del conflitto ai recenti scontri nella capitale. Il 18 luglio un bambino è stato ucciso da un bombardamento. E l’11 luglio diversi bambini senzatetto sono stati feriti da proiettili vaganti durante gli scontri avvenuti in un mercato nell’area di Omdurman, a Khartoum. sudan

Appello per l’infanzia

Il 25 e il 27 giugno, due minori sono stati uccisi e altri due feriti in bombardamenti di artiglieria in tutta la città. “Il sistema sanitario in Sudan è appeso a un filo”, riferisce Bashir Kamal Eldin Hamid. Direttore per la salute e la nutrizione di Save the Children. Con l’aumentare delle vittime, gli ospedali “sono costretti a chiudere, completamente privati di medicinali e medici e saccheggiati di ogni rimanente scorta”. L’impossibilità di dare degna sepoltura a chi è morto è un ulteriore elemento di sofferenza per le famiglie di Khartoum. Stiamo assistendo a una crisi sanitaria in atto, oltre allo sconforto, alla paura e al dolore. Laddove gli ospedali sono ancora aperti, sono sovraccarichi, il personale è stremato e mancano i rifornimenti. Save the Children chiede alle parti in conflitto di concordare un’immediata cessazione dei combattimenti in Sudan. E trovare una soluzione pacifica al conflitto. Aggiunge Bashir Kamal Eldin Hamid: “Ogni bambino o bambina, indipendentemente da dove viva, merita di vivere una vita sicura, felice e sana, libera dalla violenza. E’ fondamentale per la sopravvivenza dei minori e delle famiglie vedere la fine di questi combattimenti“.Sudan

Combattimenti in corso

Questo è l’unico modo per proteggere i minori dalla violenza e da altre violazioni dei loro diritti. Save the Children lavora in Sudan dal 1983. A sostegno di bambini, bambine e famiglie colpiti da conflitti, sfollamenti. Povertà estrema, fame e mancanza di servizi di base. “Molti dei minori e delle famiglie che aiutiamo sono tra i più vulnerabili e difficili da raggiungere”, precisa Bashir Kamal Eldin Hamid .L’organizzazione supporta attualmente quasi più di 100 strutture sanitarie e cliniche per la nutrizione in tutto il Sudan. Comprese otto cliniche mobili. Dall’escalation del conflitto, Save the Children ha importato circa 37 tonnellate di forniture mediche e farmaci di emergenza. E ha implementato una vasta campagna di vaccinazione rivolta ai bambini. Per proteggerli da malattie prevenibili, come colera, poliomielite e morbillo.

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In fuga dal Sudan

Esausta, incinta e piangente, l’infermiera sudanese Tafaul Omar si è seduta sotto il sole cocente del deserto insieme ad altri 14 migranti. Hanno detto di essere stati arrestati dalle autorità tunisine e scaricati nella zona di confine con la Libia. Una pratica che la Tunisia nega. Il gruppo di uomini e donne provenienti da Sudan, Senegal, Ghana e Mali aveva camminato per quattro ore prima che una pattuglia di frontiera libica li trovasse nel fine settimana e desse loro acqua e cibo. Hanno raccontato Omar e gli altri: “È stata una sensazione orribile camminare in mezzo al nulla“. Omar ha i vestiti sporchi di sabbia. Temeva per il suo bambino non ancora nato dopo il suo calvario nel deserto. I migranti, le guardie di frontiera libiche e i gruppi per i diritti accusano la Tunisia di aver espulso i migranti. Attraverso la frontiera. In una natura selvaggia e priva di caratteristiche. Lontana da città e villaggi, in piena estate. Nell’ambito di una repressione che dura da mesi. La Libia ha riferito di aver trovato corpi di migranti morti nel deserto. Il ministero degli Interni tunisino nega di aver gettato i migranti nel deserto. E il presidente Kais Saied ha definito le notizie come disinformazione volta a screditare il Paese.
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Respingimenti

“La Tunisia respinge tutte le accuse di aver espulso i migranti africani”, afferma il portavoce del ministero degli Interni, Faker Bouzgaya. Alla domanda su come fossero arrivate le persone bloccate nel deserto, ha risposto: “Le persone che soddisfano le condizioni per entrare legalmente in Tunisia saranno ammesse. La Tunisia non è responsabile di ciò che accade al di fuori dei suoi confini“. Bouzgaya ha sottolineato il lavoro svolto dalla Mezzaluna Rossa tunisina per assistere i migranti al confine. Omar, 26 anni, ha detto che lei e suo marito Yaseen Adam hanno vissuto a Zarziz. Una città della Tunisia meridionale vicino al confine con la Libia. Risparmiando per pagare i contrabbandieri che li avrebbero portati in Italia. La polizia li ha arrestati la settimana scorsa e li ha portati al confine. La coppia è fuggita dalla loro casa di Khartoum a causa della guerra che è scoppiata improvvisamente ad aprile. Un bombardamento nel loro quartiere che ha ucciso il padre di Omar. Un viaggio attraverso il Ciad e l’Algeria prima di arrivare in Tunisia. Dopo che la polizia li ha arrestati insieme ad altri migranti, ha picchiato gli uomini, ha preso i telefoni di tutti i membri del gruppo e li ha abbandonati nel deserto. Come hanno riferito Omar e Adam.

Appello Oim

L’OIM, l’agenzia ONU per le migrazioni, riporta che circa 300 persone hanno ricevuto cibo e assistenza medica. In una struttura del governo libico ad Alasaa, in Libia. Vicino al luogo in cui è stato trovato il gruppo di Omar. “La situazione al confine è molto complicata. Sembra che ci siano circa 350 migranti ancora bloccati a Ras Ijder”, una zona costiera a circa 35 km (20 miglia) da Alasaa, spiega Giacomo Terenzi dell’OIM in Libia. L’OIM e l’UNHCR lanciano l’allarme per la sicurezza di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia. Sono stati trasferiti in aree di confine “remote e desolate” o spinti oltre la frontiera. Le espulsioni attraverso il confine desertico sono state segnalate per la prima volta all’inizio di luglio. Dopo gli scontri tra la popolazione locale e i migranti nella città portuale di Sfax. Principale punto di partenza per i viaggi illegali verso l’Italia su piccole e inconsistenti imbarcazioni.

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Il caso Tunisia

Migliaia di migranti che vivevano in Tunisia hanno cercato di partire per l’Europa quest’anno dopo che il presidente Saied aveva annunciato un giro di vite nei loro confronti a febbraio. Affermando che la loro presenza faceva parte di un complotto per cambiare la composizione demografica della Tunisia. Questa campagna è stata denunciata dall’Unione Africana per quello che ha definito “linguaggio razziale”. E ha provocato un’ondata di attacchi contro i migranti provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana. L’emigrazione attraverso il Nord Africa e il Mediterraneo verso l’Europa ha subito un’impennata quest’anno. E non mostra segni di rallentamento, con un aumento delle partenze – e dei naufragi mortali – sulle rotte attraverso e da Libia, Tunisia, Algeria e Marocco. Nonostante le critiche rivolte all’approccio della Tunisia, il mese scorso l’Unione Europea ha dichiarato che avrebbe dato al Paese più di 100 milioni di euro. Per aiutare a combattere il traffico di esseri umani. E migliorare la gestione delle frontiere.

Frontiere

I gruppi per i diritti hanno anche criticato l’UE per il suo sostegno alle misure di immigrazione in Libia. Dove le fazioni armate controllano centri di detenzione per immigrati nei quali Amnesty International e Human Rights Watch hanno documentato torture. Il governo libico ha negato l’esistenza di torture nei centri. Omar e il suo gruppo hanno detto di aver ricevuto acqua e cibo dalle guardie di frontiera libiche, che fanno capo alla Brigata 19 del Ministero della Difesa del governo di Tripoli. Quando la pattuglia li ha trovati, erano sdraiati a terra a riposare, con le labbra screpolate e cenerine, la testa coperta da uno scialle contro il sole e il forte vento di sabbia. Le guardie di frontiera hanno detto che sarebbero stati trasferiti nella struttura governativa di Alassa. Terenzi ha detto che i migranti che stavano lavorando lì non sarebbero stati mandati in centri di detenzione. Anche Kufi Mousa, 23 anni, e sua moglie Blessing David, 20 anni, erano nel gruppo di Omar. Hanno detto di aver raggiunto la Tunisia tre mesi fa attraverso l’Algeria. Come Omar, anche David ha detto di essere incinta. Speravano di proseguire il viaggio verso l’Europa. Ma non sono riusciti a guadagnare abbastanza soldi per farlo. “Sono frustrata. Ho perso la speranza. Voglio solo tornare in Ghana. Hanno espulso me e mia moglie. E ci hanno lasciato camminare nel deserto in condizioni terribili”, ha detto Mousa.