Ragazzi (ISPI): “Le cause e le conseguenze degli scontri in Sudan”

Sulle cause dei sanguinosi scontri che si stanno verificando in Sudan, Interris.it ha intervistato Lucia Ragazzi, ricercatrice del Programma Africa promosso dall'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI)

Sudan

Da giorni lo Stato africano del Sudan sta vivendo sanguinosi scontri, con gravi perdite anche tra la popolazione civile, in particolar modo nella capitale Khartum. Sul Paese (ricco di oro e petrolio) si allunga lo spettro di una sanguinosa guerra civile tra le forze armate del generale Abdel-Fattah al-Burhan, capo del Consiglio sovrano che guida la Nazione, e i paramilitari delle Forze di sostegno rapido (Rapid Support Forces – RSF) guidate dal numero due della giunta, Mohamed Hamdan Dagalo.

Ma cosa ha originato questi scontri? E cosa dobbiamo aspettarci nell’immediato futuro? Interris.it ha intervistato Lucia Ragazzi, ricercatrice del Programma Africa promosso dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI).

La dottoressa Lucia Ragazzi, ricercatrice del Programma Africa dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ISPI

L’intervista a Lucia Ragazzi (ISPI)

Cosa sta avvenendo in Sudan?

“Il Sudan sta vivendo un’escalation di violenze iniziate sabato scorso che hanno causato la morte, stando alla conta di martedì, di 180 persone – tra cui anche molti civili – e il ferimento di altri 1800. Gli scontri sono legati alla rivalità tra le due grandi personalità dell’establishment militare sudanese. Il Sudan è guidato da una giunta militare dopo il colpo di stato avvenuto nel 2021, che aveva interrotto l’esperienza di transizione iniziata nel 2019, quanto una rivoluzione popolare aveva rovesciato il governo trentennale del presidente Omar al-Bashir”.

Quali fattori politici hanno portato a questa rivalità?

“Il Sudan ha vissuto trent’anni di regime autocratico sotto al-Bashir. La rivoluzione sudanese ha portato nel 2019 all’inizio di un processo di transizione civile. Processo che, nonostante le molte speranze, ha vissuto uno stop il 25 ottobre 2021 quando un nuovo colpo di Stato ha portato alla fine di una transizione sotto un governo civile e al subentro di una giunta militare, guidata dal generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan e dal suo secondo Mohamed Hamdan Dagalo – noto anche come Hemedti – a capo del gruppo Rapid Support Forces (RSF)”.

Che cosa sono le Rapid Support Forces?

“Sono un gruppo paramilitare sudanese nato dall’evoluzione di una milizia conosciuta come Janjaweed che venne impiegata negli anni 2000 dallo stesso al-Bashir per sopire una ribellione nella regione del Darfur, una delle nove province storiche del Sudan situata nella parte occidentale del Paese. Il Darfur è una regione strategica poiché lì sono ubicati i maggiori giacimenti di petrolio nazionali. La milizia compì gravi violenze contro la popolazione locale tanto che, nel 2008, la Corte Penale Internazionale fece la richiesta di mandato d’arresto per il Presidente del Sudan Al Bashir per il ‘crimine di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi in Darfur‘. Nel 2013, la milizia Janjaweed venne semi ufficializzata diventato le Rapid Support Forces. Con il rovesciamento di al-Bashir, al-Burhan e Hemedti hanno unito le proprie forze. Ma, oltre le apparenze di collaborazione all’interno della giunta militare, esisteva già al tempo una forte rivalità tra i due che faceva presagire la possibilità di uno scontro per il potere. Si sperava però che si potesse evitare l’escalation di violenze che invece stanno avvenendo in questi giorni”.

Quali sono le cause che hanno portato ai recenti scontri?

“I recenti scontri sono nati dopo il tentativo del Governo di integrare le RSF (che come detto sono sotto la guida di Hemedti) all’interno dell’esercito regolare sudanese. Era questa una delle tappe previste dalla roadmap verso la transizione civile. Ma le tensioni riguardo all’applicazione di questa misura sono sfociate nei violenti scontri armati di questi giorni”.

Dove avvengono gli scontri?

“Per quanto la situazione sul campo sia in evoluzione, gli scontri hanno colpito duramente la capitale Khartoum e la vicina Omdurman, ma anche varie città in tutto il Paese”.

Qual è la gravità degli scontri sudanesi?

“Gli aspetti gravi sono legati a vari aspetti. Il primo è la natura delle forze sul terreno. Le due forze – l’esercito sudanese di al-Burhan da un lato e le RSF di Hemedti dall’altro – sono pressappoco equivalenti. L’esercito regolare ha più armamenti, ma la milizia RSF potrebbe contare su un alto numero di uomini e risorse essendo Hemedti una delle persone più ricche del Sudan. In questo contesto, si potrebbe creare una situazione di stallo e le violenze potrebbero durare a lungo. Il secondo aspetto grave è il coinvolgimento della popolazione civile sudanese negli scontri. La popolazione si è trovata tra due fuochi pur non essendo coinvolta direttamente poiché si tratta di uno scontro tra due rami delle forze armate. Ci sono già molte vittime anche tra i civili e ci sono già i segnali di una grave crisi umanitaria. Senza una mediazione, gli scontri potrebbero ampliarsi nello spazio e nel tempo”.

Chi potrebbe fare da mediatore?

“Non è facile individuare una figura simile all’interno del Paese, a causa della profonda rivalità tra i due uomini ‘forti’ del Sudan e per i diversi interessi in gioco. E’ ipotizzabile un organo internazionale quale l’Unione Africana (African UnionAU) o la Comunità Economica Regionale del Corno d’Africa (Intergovernmental Authority on DevelopmentIGAD) affinché promuovano una mediazione dall’esterno”.

Qual è il ruolo strategico del Sudan?

“Ciò che rende davvero importante il Sudan è la sua posizione nel Continente africano. E’ posizionato tra il Corno d’Africa e il Sahel. Si affaccia inoltre sul Mar Rosso che lo separa dai Paesi del Golfo. E’ dunque un crocevia tra zone di alta instabilità e legami economici con L’Egitto, il Corno d’Africa e la vicina penisola Araba. Per la sua posizione, l’instabilità in Sudan crea grandi incertezze anche al di là dei suoi confini”.

Ci sono altre Nazioni che appoggiano i due leader?

“Ci sono dei legami molto forti con alcuni Paesi esterni, che supportano chi il primo, chi il secondo tra i due contendenti. Nello specifico l’Egitto ha storicamente sostenuto al-Burhan, mentre l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno sostenuto anche Hemedti. Nel Paese è anche presente il Gruppo Wagner. Non militarmente, ma in termini di collaborazione economica; in particolare, nello sfruttamento delle miniere d’oro, che rappresentano una delle principale fonte di entrata del Paese, oltre ai prodotti agricoli e al petrolio. C’è dunque una presenza russa in Sudan. Ma non dobbiamo non prendere in considerazione che, a parte il coinvolgimento di partner esterni, il nodo del conflitto sta anche nella fragilità del sistema politico sudanese”.

La guerra tra i due leader è dovuta solo a questioni di potere politico o anche per il controllo delle ingenti risorse economiche?

“Principalmente è una lotta per la spartizione del potere politico. Ma i due aspetti vanno di pari passo, poiché conquistare il potere politico equivale a controllare le ingenti risorse minerarie e petrolifere. Vincere questa partita però non è una cosa scontata vista la natura delle forze in campo. Entrambi gli antagonisti sono tra le persone più potenti e più ricche del Paese. La Storia ci insegna che questa partita può portare a dover pagare prezzi altissimi per vincerla. Ma la speranza resta quella che possa esserci una transizione di tipo civile”.

E’ possibile che il conflitto sudanese si allarghi ad altre Nazioni?

“In questo momento la paura principale è che il conflitto possa cancrenizzarsi e cronicizzarsi allargandosi alle parti del Paese ancora non coinvolte negli scontri. Il rischio è che il Sudan si divida secondo le aree di influenza dei due gruppi. Questo creerebbe le condizioni per una guerra civile di durata incerta. Sarebbe un dramma per un Paese che cerca una transizione democratica da 4 anni senza trovarla e dove i civili hanno già pagato un prezzo molto alto in vite umane. Una situazione del genere potrebbe inoltre creare un vuoto e una instabilità le cui conseguenze potrebbero vedersi, come un ‘effetto domino’, nei Paesi vicini. Uno scenario, questo, che per il bene del popolo sudanese e dell’intera regione dovrebbe essere evitato ad ogni costo”.