La pace come missione. Battaglie e vittorie no war

Contrastare la guerra come vocazione di una vita: l'imperativo etico di fermare l'onda bellica che rischia di travolgere l'umanità del terzo millennio globalizzato

Pace
La pace è molto più dell’assenza di guerra. E’ una scelta di vita, un modo (individuale e collettivo) di impostare l’esistenza. Anna Prouse è stata prima una giornalista. Poi una delegata della Croce Rossa scelta per dirigere un ospedale da campo a Baghdad. E infine un membro del Cpa (Coalition Provisional Authority). Ossia  il governo provvisorio legittimato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu per rovesciare il regime dittatoriale di Saddam Hussein. Una donna sempre in prima linea per la pace. Esperta di terrorismo e antiterrorismo. Di ricostruzione e sviluppo delle identità nazionali. Anna Prouse è sopravvissuta a tre attentati in Iraq, due a Baghdad, nel 2003. Nel primo sono morti tutti i membri della sua squadra a bordo della macchina. Nel secondo non si trovava in albergo poiché partita poche ore prima in missione nel Kurdistan iracheno. Il terzo attentato è avvenuto a Nassiriya, nel 2006. Tra le sue mille avventure, è quasi annegata nell’Eufrate. Per evitare di percorrere una strada pericolosa è salita col giubbotto antiproiettile su un motoscafo pilotato da iracheni. L’imbarcazione si è poi capovolta e lei si è salvata per miracolo.pace

Per la pace

Peggio ancora, Anna Prouse ha scampato una fatwa, una condanna a morte lanciata dal famigerato Muqtada al Sadr. Il leader di una delle più sanguinose milizie che dall’Iran aveva deciso di scagliare Allah contro di lei. Dando l’ordine di ucciderla in quanto nemica dell’Islam. “Me la sono vista brutta. Ma ho deciso di non coinvolgere né l’Italia né gli Stati Uniti, che avrebbero solo aggravato la situazione. Facendo il gioco di Muqtada. Ma piuttosto di chiedere aiuto agli iracheni. Ed in particolare al capo della polizia di Nassiriya. Lui era comunque un acerrimo nemico dei sadristi che commettevano attentati nel Sud del paese. E dovette quindi appellarsi a Qassem Soleimani. Il più potente generale iraniano, capo delle forze Quds. L’unico in grado di ordinare a Muqtada al Sadr a non lanciare la fatwa contro di me. Sono stati gli iracheni a salvarmi la vita“, spiega Anna Prouse. Guardando indietro, quella che considera la sua più grande battuta d’arresto è stata quel ginocchio spezzato sul campo da tennis. Ultima palla di una partita quasi vinta. Un incidente che stroncò definitivamente il suo pronosticato futuro da campionessa. E, a soli 16 anni, quello che era allora il suo sogno più grande.
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Vuoto emotivo

“Quell’incidente è stata la tragedia con la T maiuscola. Perché ero sola, ancora adolescente. E senza gli strumenti per affrontare la fine di un sogno. Da fuori poteva sembrare una banalità. E nessuno capiva che andava ben oltre il semplice fatto di non poter più giocare a tennis– racconta Anna Prouse-. Per me il tennis era la fuga da casa, da Milano. Mi permetteva di non rimanere bloccata tra quattro mura”. Un vuoto emotivo e fisico che ha condizionato per molti anni la sua vita e il rapporto con gli altri. “Ricordo ancora di aver tirato indietro la mano la prima volta che il mio ragazzo la prese nella sua. Provavo come un fastidio, come se avesse invaso la mia sfera personale. Ho dovuto imparare a toccare, abbracciare, accarezzare le altre persone. Motivo per cui non faccio questi gesti facilmente. Per me hanno un significato, un valore davvero importante”, prosegue.  Ecco perché è stata la prova più dura per me“, aggiunge Anna. Che dopo quell’incidente ha subito otto interventi che l’hanno costretta in casa per tanti anni. A Milano ha frequentato la Scuola tedesca. E si è poi laureata in Scienze politiche alla Statale. Pace

In fuga dal dolore

In fuga dal dolore, fisico e dell’anima, decise di partire verso Est. E in quel viaggio trovò la sua vocazione. E cioè conoscere luoghi lontani. Le persone che li abitano. Per comprenderle, raccontarle ed aiutarle. E’ accaduto prima in Iran, una terra che Anna conosceva già. E sulla quale aveva scritto una guida culturale. Per le autorità non era un’estranea e non aveva problemi di visto. Da giornalista, il 12 settembre 2001, poche ore dopo l’attacco alle Twin Towers, atterrò a Teheran per un servizio fissato da tempo. Un reportage dedicato a tutt’altra tematica. “Una pura coincidenza. Dalla redazione mi chiesero di allargare la mia inchiesta alle reazioni in loco all’attentato. Mi ricordo ancora la mia agitazione. E quando arrivai a Teheran trovai gli iraniani inorriditi. Altro che bandiere Usa bruciate e gente che inneggiava all’odio”, riferisce. “Mi consideravo un tramite. Gli occhi di chi in Occidente non poteva vedere le reazioni pacate e rispettose degli iraniani. Questa mia narrazione voleva dare un senso diverso ai fatti di cui ero testimone. Ma non interessava poiché i media volevano altro. Così i miei articoli che dipingevano un Paese troppo blando venivano messi da parte. Pubblicati da pochi”, rievoca Anna.
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La bandiera della pace firmata da tutti i partecipanti all’ultima Marcia della Pace di don Tonino, a Sarajevo nel 1992

Al servizio della pace

Per onestà comportamentale e intellettuale Anna Prouse non voleva travisare la realtà. Né cavalcare l’onda, rifiutandosi di dipingere un paese come non era. Un paese in cui la gente è colta. Le donne studiano e non hanno il burqa che si indossa in Afghanistan. Diventata poi delegato per la Croce Rossa, si trovò a dirigere un ospedale da campo a Baghdad, durante la Seconda Guerra del Golfo. Già da ragazza Anna Prouse faceva volontariato per la Croce Rossa a Milano. E anni dopo nella capitale irachena ha provato la stessa gratificazione ad aiutare gli altri. Perché “aiutando gli altri curavo anche me stessa”. Sono stati tanti i motivi di soddisfazione e gioia nei suoi anni di operato in terra irachena. In cui con le sue azioni quotidiane ha dato prova alla popolazione locale che “noi occidentali non siamo tutti invasori che vogliono il male dell’Islam. Ma che eravamo anche lì per il bene della gente“. La vita di Anna Prouse è così densa di eventi contrastanti, percorsi imprevedibili, sconfitte dolorose, battute d’arresto, ripartenze e vittorie sorprendenti, che fa venire in mente la fenice. Simbolo per eccellenza della vita, della morte e della risurrezione. L’appassionante racconto lascia il segno. Un romanzo di oltre 400 pagine che si leggono col fiato sospeso e tante emozioni in circolo. E’ il ritratto, evidenzia l’Agi, di una donna appunto in prima linea per la pace, dal destino complesso e insolito. Metafora di vita di tante altre figure femminili che lottano quotidianamente ai quattro angoli del pianeta.Pace

La fatica di raccontarsi

“A dire il vero ho faticato molto a scrivere. Ma l’ho fatto con la speranza che chi leggerà questo libro ne tragga giovamento. E si senta umanamente arricchito”, sottolinea Anna Prouse. Donna sulla linea di fronte in scenari complessi quali l’Iran e l’Iraq. Prima come giornalista, poi come delegata della Croce Rossa a Baghdad. E come consulente per il governo americano e italiano a Nassiriya. Franco-italiana, attualmente stabilita a Palo Alto, negli Stati Uniti, Prouse è in Italia per presentare la sua autobiografia intitolata “Della mia guerra, della mia pace“, edita da Harper Collins. “Alla fine, quello che mi sento di dire a tutte le donne, è ‘Trust‘. Abbi fiducia in questa vocina interiore. Abbi fiducia in te stessa. Io mi sono sempre preposta di ascoltarla. E mi è stata di grande aiuto“, conclude.