Il futuro del lavoro?

Oggi si assiste, da ormai troppo tempo, ad un progressivo allontanamento dalla vita di relazione ed al culto, talvolta esasperato, dell’individualismo attribuendone la responsabilità agli evidenti fallimenti del contesto sociale cui abbiamo assistito ed assistiamo. La risposta, però, non può farci chiudere in noi stessi, declinando il dialogo, o a coltivare la nostra cristianità, la nostra fede, individualmente: non è fede, non è cristianità, non è pensiero quello che non si esprime nei confronti degli altri che partecipano alla vita, posto che la vita umana è necessariamente in comune.

Un tema primario, direi primordiale, di dibattito è quello del lavoro: l’Uomo ha necessità fisiologica di procurarsi quanto occorre al proprio sostentamento e, avendo abbandonato, proprio per la sua natura umana, la caccia a danno degli altri esseri viventi, conseguentemente ha iniziato a lavorare e a produrre.

Ebbene, la difesa del lavoro umano non è caratteristica di una forza o di un’idea politica particolare, come è potuto apparire a qualcuno nei decenni trascorsi: è una esigenza fondamentale della vita di relazione; e se da un canto dobbiamo esprimere il plauso alle forze politiche che si sono fatte carico delle conquiste sociali nel mondo del lavoro, dobbiamo però oggi assistere ad un fenomeno paradossale: abbiamo conquistato la dignità del lavoratore ma abbiamo perso il lavoro.

Perché? Oggi abbiamo assistito ad una crescita esasperata delle regole finanziarie che vengono fatte derivare da quelle dell’economia. Ma essa è una scienza che viaggia secondo suoi canoni, indipendenti dalla volontà umana: la finanza è, invece, una tecnica applicativa che deriva dall’economia e che vede impegnata l’attività umana per trarre beneficio dalle leggi di quest’ultima. Oggi a tutti pare che l’intervento umano nelle regole dell’economia sia stato – non voglio dire deliberatamente – improntato a beneficio degli uomini e non dell’umanità: in un precedente intervento scrivevo che abbiamo fatto la guerra ai poveri e non alla povertà.

Non corre dubbio che tutti abbiamo contribuito, in un modo o in un altro, a creare una società in cui il materialismo predomina sull’impegno morale, in cui la rapida crescita che abbiamo raggiunto non è sostenibile del punto di vista né ambientale né sociale. Lo spietato individualismo e il fondamentalismo di mercato hanno eroso qualsiasi senso di comunità permettendo lo sfruttamento di persone inconsapevoli e vulnerabili e creando sempre maggiori differenze sociali. Sono considerazioni espresse da Joseph E. Stiglitz, statunitense premio Nobel per l’economia nel 2001, che, in Bancarotta – L’economia globale in caduta libera, ha sottolineato che è proprio il mercato che ha alterato il nostro modo di pensare: l’inarrestabile ricerca del profitto e la mobilitazione del perseguimento dell’interesse personale non hanno certamente creato la sperata prosperità. Hanno invece contribuito al decadimento morale.

E le istituzioni hanno scoperto che alla base della piramide c’era il denaro ed hanno fatto tutto ciò che potevano per spostare questa ricchezza verso il vertice, senza alcuna possibilità di redistribuzione. Anzi si è riscontrato che gli utili elevati in breve periodo (ottimizzati da pochi privilegiati) sarebbero stati seguiti da forti perdite (diffuse tra tutti gli utenti e i consumatori). Nel momento in cui il fine ultimo è diventato il denaro, non c’è più alcun limite ai comportamenti degli individui, specie di quelli che detengono un potere economico e finanziario.