Chi sono i martiri di Kindu omaggiati dal Papa

Prima di partire per il Congo, Papa Francesco ha sostato dinanzi al Monumento ai Caduti di Kindu, i 13 aviatori italiani uccisi in Congo l’11 novembre 1961

Il Papa in preghiera al Monumento dei caduti di Kindu a FiumicinoIl Papa in preghiera al Monumento dei caduti di Kindu a Fiumicino. Foto: Vatican News

Oggi, nell’arrivare all’aeroporto di Fiumicino, l’auto del Papa ha sostato brevemente nei pressi del Monumento ai Caduti di Kindu, i 13 aviatori italiani uccisi in Congo l’11 novembre 1961. Alle vittime di quell’eccidio e a tutti coloro che hanno perso la vita partecipando a missioni umanitarie e di pace, Papa Francesco ha dedicato una preghiera, per poi procedere in direzione dell’aereo che lo ha portato nella Repubblica Democratica del Congo e nei prossimi giorni in Sud Sudan per il 40° Viaggio Apostolico. Il quarto in Africa. Oggi pochi sanno chi siano quei martiri e che cosa avvenne in Congo nel lontano 1961.

La storia dei martiri di Kindu

L’eccidio di Kindu avvenne l’11 o il 12 novembre 1961 a Kindu, nell’attuale Repubblica Democratica del Congo (al tempo denominata Repubblica del Congo), dove furono trucidati tredici aviatori italiani, facenti parte del contingente dell’Operazione delle Nazioni Unite in Congo inviato a ristabilire l’ordine nello Stato africano durante la cosiddetta crisi del Congo, una fase di perdurante instabilità politica e di tumulti che interessò il territorio dell’attuale Repubblica Democratica del Congo tra il giugno del 1960 e il novembre del 1965. I tredici militari italiani formavano gli equipaggi dei due C-119 Lyra 5 e Lupo 33, bimotori da trasporto della 46ª Aerobrigata di stanza a Pisa.

Il Belgio, al momento dell’indipendenza, lasciò il Congo in un completo caos politico e amministrativo. Duraturi odi tribali venivano fomentati da vari attori internazionali, che miravano a controllare le vaste risorse agrarie e minerarie del paese, favorendo la secessione del Katanga, la più ricca provincia del paese, centro d’importanti attività minerarie.

Le fazioni in lotta erano tre: quella del presidente Joseph Kasa-Vubu, con le truppe comandate dal generale Mobutu che controllavano le regioni occidentali; quella lumumbista di Antoine Gizenga, con le truppe del generale Lundula sostenute dai sovietici che controllavano le province orientali, e quella katanghese di Moise Ciombe, con i gendarmi sostenuti da mercenari bianchi, soprattutto belgi.

La guerra era improvvisamente scoppiata nel luglio 1960, il mese dopo la proclamazione dell’indipendenza, con la secessione del Katanga, seguita dall’uccisione di Patrice Lumumba, l’ex primo ministro che aveva tentato di liberare il paese dalle ingerenze esterne. Mandante dell’omicidio era Moise Ciombe, leader della provincia del Katanga, appoggiato dal presidente della repubblica Joseph Kasa-Vubu e dal capo delle forze armate Joseph-Désiré Mobutu, il quale avrebbe in seguito retto le sorti del paese come dittatore per circa quarant’anni. Una guerra civile tra tre fazioni che provocò dall’agosto 1960 l’intervento dei caschi blu della missione ONUC.

I due equipaggi italiani operavano da oltre un anno nel Congo, e il 23 novembre 1961 sarebbero dovuti rientrare in Italia. La mattina di sabato 11 novembre 1961 i due aerei decollarono dalla capitale Leopoldville per portare rifornimento alla piccola guarnigione malese dell’ONU, che controllava l’aeroporto poco lontano da Kindu, ai margini della foresta equatoriale.

La zona era sconvolta da mesi dal passaggio delle truppe della Repubblica libera del Congo provenienti da Stanleyville e dirette nel Katanga. Gli aerei italiani si dovevano fermare a Kindu solo il tempo di scaricare e, per gli equipaggi, di mangiare qualcosa. Da vari giorni in città vi era un’agitazione maggiore del solito: fra i duemila soldati del regime di Stanleyville di stanza a Kindu si era sparsa la voce che fosse imminente un lancio di paracadutisti mercenari al soldo del regime di Ciombe.

La vista dei due aerei italiani, scambiati per velivoli katanghesi carichi di paracadutisti, scatenò la reazione incontrollata dei soldati di stanza a Kindu: diverse centinaia di congolesi si recarono in camion all’aeroporto dove in quel momento i tredici uomini degli equipaggi italiani, comandati dal maggiore Parmeggiani, si trovavano alla mensa dell’ONU, una villetta distante un chilometro dalla pista, insieme a una decina di ufficiali del presidio malese.

Intorno alle 16:15 i congolesi fecero irruzione nell’edificio, dove italiani e malesi, quasi tutti disarmati, si erano barricati: circa 80 soldati congolesi sopraffecero rapidamente gli occupanti della palazzina prendendo in ostaggio gli italiani e li rinchiusero nella piccola prigione locale.

Mentre il maggiore Maud e il suo vice discutevano se fosse meglio trattare il rilascio pacifico degli italiani o tentare un’azione di forza per liberarli, quella notte giunsero all’aeroporto di Kindu da Leopoldville il generale Lundula e alcuni funzionari dell’ONUC.

Soldati congolesi fecero irruzione nella cella dove erano detenuti i dodici aviatori italiani e li uccisero tutti a colpi di mitra; abbandonati i corpi sul posto, questi furono spostati poche ore dopo dal custode del carcere che, temendone lo scempio, li trasportò con un camion nella foresta fuori città e li seppellì in una fossa comune.

Per giorni non si seppe nulla della sorte degli aviatori e lo stesso comando delle truppe ONU temporeggiò per evitare di scatenare una rappresaglia contro gli italiani, senza sapere che questi erano già stati uccisi. Solo alcune settimane dopo l’eccidio il custode del carcere si mise in contatto con i fratelli Arcidiacono, due italiani residenti da tempo a Kindu: questi riuscirono a ricostruire le circostanze dell’eccidio e a contattare le autorità ONU per predisporre il recupero delle salme. Nel febbraio del 1962 quindi un convoglio della Croce Rossa austriaca, scortato da un contingente di caschi blu etiopi e accompagnato da due ufficiali della 46ª Aerobrigata (il tenente colonnello Picone e il maggiore Poggi), rinvenne la fossa comune dove erano stati seppelliti gli italiani nel cimitero di Tokolote, un piccolo villaggio sulle rive del Lualaba ai margini della foresta: i corpi, protetti da una grossa crosta di argilla, erano ancora in buono stato di conservazione e furono facilmente identificati. Trasportati all’aeroporto di Kindu, furono imbarcati su un C-119 italiano e inviati a Leopoldville, da dove rientrarono in Italia a bordo di un C-130 statunitense.

Nel gennaio 1962 truppe dell’esercito nazionale congolese di Leopoldville iniziarono un’offensiva contro le posizioni tenute dal governo di Stanleyville, indebolito dal confronto con il Katanga: il 14 gennaio i governativi presero la stessa capitale e fecero prigioniero il primo ministro Gizenga.

Le vittime dell’eccidio di Kindu riportate dai giornali del tempo

Le vittime

Ecco i nomi dei tredici aviatori trucidati a Kindu appartenenti a due distinti equipaggi.

Equipaggio del C-119 MM52-6002 (nominativo radio Lyra 5):

  • Maggiore pilota Amedeo Parmeggiani, 43 anni, di Bologna, comandante della mission
  • Sottotenente pilota Onorio De Luca, 25 anni, di Treppo Grande (UD)
  • Tenente medico Francesco Paolo Remotti, 29 anni, di Roma
  • Maresciallo motorista Nazzareno Quadrumani, 42 anni, di Montefalco (PG)
  • Sergente maggiore montatore Silvestro Possenti, 40 anni, di Fabriano (AN)
  • Sergente elettromeccanico di bordo Martano Marcacci, 27 anni, di Collesalvetti (LI)
  • Sergente marconista Francesco Paga, 31 anni, di Pietrelcina (BN)Equipaggio del C-119 MM51-6049 (nominativo radio Lupo 33)
  • Capitano pilota Giorgio Gonelli, 31 anni, di Ferrara
  • Sottotenente pilota Giulio Garbati, 22 anni, di Roma
  • Maresciallo motorista Filippo Di Giovanni, 42 anni, di Palermo
  • Sergente maggiore montatore Nicola Stigliani, 30 anni, di Potenza
  • Sergente maggiore elettromeccanico di bordo Armando Fausto Fabi, 30 anni, di Giuliano di Roma (FR)
  • Sergente maggiore marconista Antonio Mamone, 28 anni, di Isola di Capo Rizzuto (KR)