Dal Tagikistan all’Afghanistan, le tragedie infinite di cui nessuno parla

Sono più di 30 i conflitti in atto nel mondo. Ma molti di questi non fanno notizia. E' come non esistessero. Eppure ci sono uomini, donne, bambini che muoiono in guerra. E che dalle guerre fuggono. Gli episcopati nazionali si mobilitano affinché sia realizzato il grido “Mai più la guerra!”

Afghanistan
Tragedie nell’ombra. Francesco richiama senza sosta le stragi che il mondo ignora. Si tratta delle guerre dimenticate che insanguinano il pianeta. Sono più di 30 i conflitti in atto nel mondo. Ma molti di questi non fanno notizia. E’ come se non esistessero. Eppure ci sono uomini, donne, bambini che muoiono in guerra. E che dalle guerre fuggono. Gli episcopati nazioni si mobilitano affinché sia realizzato il grido “Mai più la guerra!”. Già Paolo VI disse all’Onu 57 anni fa: “Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze. Inutili stragi e formidabili rovine”. La solidarietà e l’impegno no war “sanciscono il patto che vi unisce”. Con “un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo. Non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità!”, invocava il 4 ottobre 1965 papa Montini alle Nazioni Unite.
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Donestk 05/04/2022 – guerra in Ucraina / foto Imago/Image nella foto: militari ONLY ITALY

Tragedie dimenticate

Anche se la maggior parte dei media racconta solo quello tra Ucraina e Russia, sono una dunque numerosi i conflitti che oggi insanguinano il nostro pianeta. Un fronte bellico che unisce virtualmente la Siria, l’Afghanistan, il Nagorno Karabakh. E molte altre periferie del mondo. E’ la catastrofe umanitaria di coloro che ogni giorno affrontano pericoli, fame e povertà, barbarie. Sono le terre remote come l’Afghanistan raccontate con materiali inediti nel documentario “Cooler climate“. Francesca Mannocchi descrivere al pubblico dei ragazzi i conflitti sparsi in tante parti del globo ha appena pubblicato un libro.“Ero confusa. Sapevo che nelle zone di conflitto è meglio essere confusi che pieni di certezze. Perché è proprio dai dubbi che si comprendono meglio le cose“, spiega l’inviata di guerra. La cui narrazione non è mai distante ma sempre un punto di vista soggettivo. Restituisce la dimensione emotiva accanto a quella razionale. Tutto ciò è nelle pagine di “Lo sguardo oltre il confine” (De Agostini). La paura, il dubbio, lo stupore, lo sconcerto. Tante le emozioni che compaiono nel libro. Tratteggiate con sincerità di un’autrice costantemnte in viaggio. Ucraina, Siria, Libano, Afghanistan.
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Nelle zone “calde” del pianeta

In ogni capitolo il racconto ha la forza dell’immediatezza. Reportage sul campo di una giornalista che da anni porta nelle case degli italiani la cronaca di ciò che accade nelle zone più “calde” del pianeta. Con un linguaggio sempre semplice, diretto. Utile per spiegare e portare chi legge “dentro” ogni singolo contesto. Un focus sui fatti della storia. Uno sguardo che li ordina e li mette in relazione. Facendo emergere i motivi politici, economici e religiosi all’origine dei conflitti. Una testimonianza che mette al centro le persone incontrate in un cammino spesso rischioso. L’attenzione all’umanità ferita. A donne e uomini, sopravvissuti o combattenti. Ai quali la guerra ha stravolto irrimediabilmente l’esistenza. Come Melissa in Libano. Husen in Afghanistan. Ali in Iraq. Anastasia in Ucraina. Storie capaci di diventare guida per chi è più giovane. Protagonisti distanti da noi. Non solo geograficamente. Con il loro dolore e lo sgomento per ciò che hanno vissuto. Sono la bussola attraverso cui orientarsi in guerra. Ossia in una materia oscura e intricata. Anche attraverso un glossario di parole chiave. Rifugiato, profugo. Ma anche sharia, sovranità, esilio, armi chimiche, burqa.
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Certezze che tremano

“L’altro, con la sua diversità, fa tremare le nostre certezze“, osserva Mannocchi. Che proprio partendo da questa diversità, si rivolge ai giovani lettori. Invitadoli a provare ad ascoltare sempre le ragioni dell’altro. Per intraprendere un processo di scoperta e curiosità. Arricchimento ma anche smarrimento. E ciò rappresenta l’unico modo per conoscere un mondo in subbuglio. La “terza guerra mondiale a pezzi” come la definisce papa Francesco. Per esempio è lo scontro riesploso negli ultimi giorni tra Kirghizistan e Tagikistan. Le due nazioni dell’Asia centrale sono reciprocamente alleate della Russia. Ma si scontrano su una disputa di confine. Accusandosi reciprocamente di usare carri armati, mortai, artiglieria a razzo e droni d’assalto. Per attaccare avamposti e insediamenti vicini. I problemi di confine in Asia centrale risalgono in gran parte all’epoca sovietica. Quando Mosca cercò di dividere la regione tra gruppi. Icui insediamenti erano spesso situati in mezzo a quelli di altre etnie. Le due ex repubbliche sono in uno stato di conflitto da 30 anni per la definizione del confine dopo la dissoluzione dell’Urss. Analogamente a quanto accade nel Caucaso fra Armenia e Azerbaigian. La tensione fra le due repubbliche asiatiche si riaccende adesso. Mentre la Russia, che agiva da garante della sicurezza nella regione, è occupata con l’invasione dell’Ucraina.

 

 

Frontiere insanguinata
Il bollettino, emesso dal governo di Bishkek, non parla delle perdite da parte tagica. Secondo gli ultimi dati trasmessi dalla regione di Batken le strutture sanitarie hanno ricevuto i corpi di altre 12 persone.  Medici senza Frontiere (Msf) rende noto di aver inviato un team e di aver allestito una clinica di fortuna all’interno di una scuola nel villaggio di Ravat, nella regione di Batken, dove hanno cercato sicurezza circa 18.000 sfollati in fuga dai combattimenti. «Oltre 200 le visite mediche offerte nei primi due giorni dallo scoppio del conflitto- riferisce la Ong-. Le persone, anche gli anziani, sono arrivate a Ravat dopo aver attraversato le montagne a piedi per mettersi in salvo. All’arrivo sono stati accolti dalle persone del posto che lungo le strade mostravano cartelli per indicare la loro disponibilità ad accogliere gli sfollati nelle loro case». Un altro team di Msf prevede di raggiungere la capitale della regione, la città di Batken, dove viene trasferita la maggior parte dei feriti, per valutare forme di supporto alle autorità sanitarie locali, «anche se la situazione è instabile». E «sul versante tagico, un team di Msf sta mobilitando forniture di emergenza ed è pronto a rispondere e fornire assistenza».

Mosca in difficoltà

Dopo il conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, si è riaccesa un’altra delle varie dispute di confine che, dal crollo dell’Urss, oppongono le ex repubbliche sovietiche. I combattimenti cominciati alla frontiera tra Kirghizistan e Tagikistan, pur in presenza di un bilancio ancora incerto, appaiono come i più violenti da quelli del maggio 2021, che causarono almeno 55 morti e decine di migliaia di sfollati. Se Erevan e Baku hanno, rispettivamente, Mosca e Ankara come potenze tutrici, Bishkek e Dushanbe fanno entrambe parte della sfera d’influenza russa. Alcuni analisti hanno quindi suggerito un collegamento tra la nuova escalation di tensione kirghiso-tagika e la guerra in Ucraina, che sta distraendo il Cremlino dal nuovo “Grande Gioco”. Turchi e cinesi – e non più gli inglesi come ai tempi di Kipling – stanno contendendo alla Russia la capacità di guidare i processi politici ed economici negli immensi spazi dell’Asia centrale. E non manca chi, come il Kazakistan, che ha le dimensioni e le risorse per permetterselo, approfitta del difficile periodo attraversato dallo “zar” per provare a ballare da solo.

Escalation
Il 15 e il 16 settembre durante il vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco), Vladimir Putin sembra aver reso evidente quali siano le sue priorità. I media di Mosca hanno dedicato molto spazio all’incontro tra il presidente russo e l’omologo azero, Ilham Aliyev, ma non altrettanta attenzione e’ stata dedicata al suo colloquio con il presidente kirghiso, Sadir Japarov, forse anche per l’attesa alla quale Putin – abituato a far aspettare l’interlocutore – è stato costretto dal collega di Bishkek. Nell’antica capitale dell’impero timuride, lo stesso Japarov si e’ trovato di fronte il collega tagiko Emomali Rahmon mentre i rispettivi eserciti si scambiavano colpi d’artiglieria. Il primo alla guida di una democrazia (quantomeno per gli standard dell’area), il secondo autocrate più tradizionale, i due leader hanno discusso un cessate il fuoco che, dopo i furiosi combattimenti di venerdì sera, ha grossomodo retto. Il nodo del contendere è però tutt’altro che risolto e risale alla demarcazione dei confini tra le repubbliche socialiste deciso a suo tempo dalle autorità sovietiche. Queste ultime si erano preoccupate di rendere gli Stati che componevano l’Urss il più omogenei possibile dal punto di vista etnico. Per le esigenze più disparate, da quelle orografiche a quelle infrastrutturali, qualche exclave restò tuttavia separata dalla nazione di riferimento. Tale fu il destino di Vorukh e Kayragach, insediamenti tagiki che si trovano all’interno della regione kirghisa di Bakten, teatro delle ostilità di questi giorni.

Effetti del crollo
Finché ci fu l’Unione Sovietica, si tratto’ di un problema relativo. Il crollo del comunismo riaccese però controversie che erano rimaste sopite e, ancor oggi, oltre un terzo dei mille chilometri di confine tra Kirghizistan e Tagikistan è contestato. La componente etnica ha un suo ruolo ma non e’ la ragione principale del conflitto. In ballo c’è l’accesso agli importanti bacini idrici della zona, da oltre trent’anni fonte di periodici scontri. La Russia si è offerta di collaborare alla delimitazione della frontiera per mettere fine una volta per tutte a un dissidio che le crea un certo imbarazzo. Kirghizistan e Tagikistan, infatti, sono entrambi parte non solo della Sco ma anche del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Ctso), la cosiddetta “mini Nato” a guida russa che comprende, inoltre, Armenia, Bielorussia e Kazakistan (l’Uzbekistan è già entrato e uscito due volte; Georgia e Azerbaigian lasciarono nel 1999). Se si desidera, come Putin, condurre il mondo verso un nuovo ordine multipolare, un’alleanza militare con due membri che si sparano addosso a vicenda non è un ottimo biglietto da visita.