Tavoletta (Acli Terra): “Il contrasto al caporalato inizia dalla scuola”

L'intervista di Interris.it a Nicola Tavoletta, presidente di Acli Terra, sulle strategie di contrasto al caporalato

Il caporalato è l’intermediazione illegale e lo sfruttamento dei lavoratori irregolari, riguardante in misura maggiore il settore agricolo. È un fenomeno molto complesso che riguarda sia italiani che stranieri, diffuso in tutto il paese. L’aumento dei flussi migratori dell’ultimo decennio, inoltre, ha fatto sì che, sempre più cittadini stranieri sono costretti, loro malgrado, a fungere da manodopera a basso costo e senza alcuna tutela.

I dati del settore agricolo

Secondo gli ultimi dati diffusi in riguardo alla presenza del caporalato e del lavoro non regolare nel settore agricolo, le vittime di questo fenomeno, sarebbero 400 mila. Quasi l’ottanta per cento di questi lavoratori è straniero e riceve un salario giornaliero che ammonta a circa la metà di quello stabilito dai contratti nazionali. Il fenomeno è maggiormente diffuso nel Mezzogiorno, ma è in aumento anche nel Nord e nel Centro del Paese. Interris.it, in merito a questo tema e alle metodologie di prevenzione da adottare, ha intervistato il presidente di Acli Terra, Nicola Tavoletta.

L’intervista

Qual è l’attuale situazione in relazione al caporalato in Italia? In che modo si può contrastare e prevenire questo fenomeno nel comparto agricolo?

“Sicuramente ci sono delle sacche di illegalità in tutta Italia. Dico questo per sottolineare che, il caporalato, non è soltanto un fenomeno dell’Italia meridionale ma, l’illegalità nella gestione delle lavoratrici e dei lavoratori c’è anche in altre realtà nazionali. Negli ultimi vent’anni ci sono state numerose azioni di contrasto che hanno avuto dei risultati efficaci e quindi si è verificato un miglioramento della previdenza sociale, anche nei confronti dei lavoratori immigrati. Continuano però ad esserci degli spaccati di illegalità, nell’agricoltura come in tanti altri settori del mondo del lavoro dove c’è lavoro nero. Una misura che si può adottare, al di là di tutte quelle già prese dalle istituzioni, molte volte dalle regioni che, negli ultimi vent’anni, sono state molto attente a questo fenomeno, è l’educazione scolastica. I fenomeni mafiosi, in Sicilia e nel Sud Italia, hanno cominciato a vacillare, quando i traumi delle stragi dell’inizio degli anni ’90, hanno fomentato nelle scuole un movimento culturale che ha coinvolto le giovani generazioni, che hanno cercato di riscattarsi rispetto a quello che era il giogo mafioso. Una forte educazione, nel mondo scolastico, alla legalità, alla trasparenza nel mondo professionale e alla sicurezza nei luoghi di lavoro rappresenta un sistema di riscatto dai fenomeni di sfruttamento. C’è poi un altro tema, il fare questo discorso nelle scuole, permette anche ai figli degli imprenditori agricoli, di essere controllori ed educatori degli stessi padri e, ai figli delle lavoratrici e dei lavoratori, di essere da stimolo per un riscatto o una denuncia da parte dei padri oppure, per i genitori, dover dare il buon esempio perché, grazie all’educazione scolastica, si introducono liberamente tali discorsi. Quindi, un’educazione al contrasto del fenomeno, la si può effettuare tramite il sistema scolastico. Ciò, negli anni ’90, è stato uno degli strumenti formidabili di contrasto alla malavita e può essere molto utile anche ora per questo fenomeno”.

In che modo Acli Terra agisce e ha agito per contrastare il fenomeno del caporalato agricolo? Come si può valorizzare il Made in Italy attraverso il lavoro agricolo sano?

“Acli Terra, negli ultimi anni, sta svolgendo un progetto Fami di contrasto al caporalato e lavoro con gli istituti scolastici e le scuole superiori attraverso degli incontri riguardanti il lavoro buono, sano e sicuro per far capire quelle che sono le storture del lavoro nero, dello sfruttamento e del caporalato. L’obiettivo è di far emergere, nella prospettiva professionale dei giovani, le strade della legalità e dell’educazione a un rapporto di lavoro sano e controllato. Stiamo portando avanti questa azione ormai da qualche anno in otto regioni italiane. L’altro compito è quello che svolgiamo ogni giorno, in merito all’accompagnamento e all’assistenza alle aziende tramite i centri di assistenza agricoli e ai lavoratori attraverso il patronato Acli. In questa attività si fanno emergere le storture dei rapporti di lavoro, chiedendo così di sanarli e renderli legali, attuando così una forma di pedagogia professionale da parte dei nostri operatori. Il Made in Italy ha un valore economico importante sulla qualificazione del prodotto che si ha sulla originalità dei contenuti organolettici e biologici dei prodotti e sulla capacità di trasformarli. Quest’ultima si ritrova in un artigianato di alta specializzazione quindi, per poter avere un prodotto di qualità, gli operatori formati e preparati che si basano sulla regolarità del rapporto di lavoro. È sulla quantità di produzione che agiscono il lavoro nero e il caporalato. Mentre, quando l’Italia ha la necessità di basare la sua economia di esportazione sulla qualità, è inevitabile che lo stesso dipendente, operaio e trasformatore, deve avere delle competenze alte; quindi, sfugge al lavoro di sfruttamento perché ha bisogno di formazione. Questo, al di là di qualsiasi certificazione ufficiale, è già un percorso buono”.

agricoltura

Quali sono i vostri auspici per il futuro sul tema del caporalato? Quali evoluzioni normative sarebbero necessarie a suo parere?

“Ci devono essere delle parole d’ordine più che degli auspici, come ad esempio la qualificazione della produzione. Alzarla nel settore agroalimentare, significa anche elevare anche la posizione delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti. Così facendo, proporremo un prodotto che viene da una determinata competenza e risponde a un’alta soddisfazione dei clienti che riescono a capire e intercettare la qualità del lavoro. Quest’ultima può essere espressa solo da lavoratori che sono in regola e in un percorso di continuo aggiornamento, formazione e messa in sicurezza. Ciò significa mettere due elementi nella trasformazione alimentare, il know how, ovvero la capacità di saper fare le cose, ma anche il why how che indica il perché facciamo le cose, ossia la storia dei nostri alimenti. In questo modo tutto il sistema del lavoro viene salvaguardato”.