Onufrio (Greenpeace Italia): “Serve un nuovo paradigma rispettoso dei limiti della natura”

In occasione dei 50 anni dalla fondazione di Greenpeace, l'intervista di In Terris al direttore esecutivo della sezione italiana Giuseppe Onufrio sull'attuale situazione dell'ambiente, della crisi climatica e sulle principali cause

Uisg

Gli allarmi sul clima si sono fatti ancora più seri nei toni e nei messaggi, in queste ultime settimane, mentre si avvicina la Conferenza sul cambiamento climatico che si terrà a Glasgow, in Scozia, il prossimo novembre. Nel suo intervento in apertura della settantaseiesima Assemblea generale delle Nazioni unite, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha scelto parole atte a scuotere la platea, non solo dei leader mondiali ma dell’intera popolazione del Pianeta, parlando di “un codice rosso per l’umanità” e di obiettivi, nella lotta al cambiamento climatico, “apparentemente lontani anni luce”. Guterres ha prima ricordato che nell’Accordo sul clima di Parigi raggiunto nel 2015, entrato il vigore il 4 novembre 2016, raggiunto durante la Cop21 nella capitale francese, si erano stabiliti il taglio del 55% delle emissioni globali e il contenimento dell’innalzamento della temperatura entro gli 1,5°, aggiungendo poi che “serve un taglio delle emissioni del 45% entro il 2030, per raggiungere la neutralità carbonica entro metà del secolo”. Ma le prospettive sono fosche, “la finestra si sta chiudendo rapidamente”, ha sottolineato Guterres, citando un rapporto dell’Onu per cui, invece di diminuire, “le emissioni aumenteranno del 16% entro il 2030”. Secondo gli ultimi studi dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), questo potrebbe comportare, in assenza di un’azione immediata, un aumento delle temperature di circa 2,7° entro la fine del secolo. Sempre in riferimento agli obiettivi fissati nell’Accordo di Parigi, il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ha a sua volta avvertito, in un videomessaggio al Forum delle maggiori economie sull’energia e il cambiamento climatico, che “dobbiamo essere onesti nei confronti di noi stessi e dei nostri cittadini: stiamo venendo meno a questa promessa”. Gli effetti disastrosi sull’ambiente, sull’uomo, sul presente e sul futuro sono da tempo sotto gli occhi di tutti. L’importanza della cura della nostra “casa comune” è anche al centro dell’enciclica di Papa Francesco Laudato Si’, documento con cui il Santo Padre illustra il concetto di ecologia integrale.

“Una pace verde”

C’è chi da mezzo secolo non viene meno alla sua promessa e porta avanti la sua azione in difesa dell’ambiente e della pace su scala sempre più globale. Ha infatti recentemente “compiuto” 50 anni Greenpeace, l’organizzazione non governativa ambientalista e pacifista nata “dall’idea di uomini e donne visionarie”, come li definisce a In Terris il direttore esecutivo di Greenpeace Italia (fondata nel 1986) Giuseppe Onufrio. Nell’intervista che segue viene illustrata la gravità della situazione in cui si trova il Pianeta a causa della deforestazione che avanza, dell’inquinamento da microplastiche che ha invaso tutti gli ecosistemi, della dipendenza dai combustibili fossili di un sistema economico che guarda esclusivamente al profitto a breve termine, delle persone costrette a lasciare i propri territori a causa degli effetti dei cambiamenti climatici. “Abbiamo bisogno di un cambio di paradigma e ricostruire il nostro modo di produrre e consumare in una chiave più rispettosa dei limiti della natura”, dice a In Terris.

L’intervista

Nel nome Greenpeace sono unite le parole green, che rimanda alla natura, all’ambiente che ci ospita, e peace, pace, una condizione in cui la società vive in armonia. Perché questa scelta?

“Il nome è nato in modo spontaneo al termine di una delle prime riunioni degli attivisti che hanno fondato Greenpeace, in cui si discuteva su come bloccare il programma di test nucleari statunitense ad Amchitka. Al tipico segno di pace di uno dei presenti, un giovane attivista ha risposto: “Facciamo in modo che sia una pace verde”. Sintetizzando alla perfezione lo spirito di quel tempo. Siamo alla fine degli anni Settanta e le conseguenze umanitarie e ambientali della guerra in Vietnam hanno fatto avvicinare pacifismo ed emergente consapevolezza ecologica in un unico movimento globale. Da questa unione e dalle battaglie sociali per i diritti civili, per l’ambiente e la pace, nasce Greenpeace. Siamo un’associazione ambientalista e pacifista, che utilizza azioni dirette nonviolente per denunciare i problemi ambientali e promuovere alternative per un futuro verde e di pace. Più che un nome, Greenpeace è un messaggio e un programma in difesa dell’ambiente e della pace”.

Qual è stato l’“atto costitutivo”, cioè il gesto che ha dato vita a Greenpeace?

“Nasce dall’idea di uomini e donne visionarie. Il 15 settembre 1971 un gruppo di attivisti per l’ambiente salpa per l’isola di Amchitka, al largo dell’Artico, per fermare un test nucleare statunitense. Parte da Vancouver su un vecchio peschereccio ribattezzato per l’occasione “The Greenpeace” noleggiato con i fondi raccolti da un concerto rock. L’obiettivo è impedire con la loro propria presenza che la bomba venga fatta esplodere. L’impresa degli attivisti compare sulle prime pagine dei giornali nordamericani e tocca l’immaginazione di tutto il mondo. Anche se non riesce a fermare il test, il viaggio scatena un movimento di protesta che porta il presidente Nixon ad annullare l’intero programma di test sull’isola dopo un anno. Nel 1979, dopo che si erano formate diverse Greenpeace in vari Paesi, viene fondata  Greenpeace International come “casa madre” per coordinare le attività e fare campagne internazionali in difesa dell’ambiente e della pace”.

Venendo all’oggi, qual è lo stato di salute del Pianeta?

“La crisi climatica è drammaticamente grave e al momento le politiche di contrasto sono troppo deboli. La deforestazione – che contribuisce anche alla crisi climatica – procede in modo preoccupante. I nostri mari sono aggrediti dalla plastica e dalla pesca industriale, che si aggiungono agli impatti già visibili della crisi climatica in diverse aree del mondo. La situazione è grave, siamo noi a rischio assieme a diverse specie animali e vegetali di cui stiamo provocando l’estinzione, il Pianeta se la caverà anche senza di noi”.

Quali sono le principali cause?

“Sono legate alla nostra dipendenza dai combustibili fossili – carbone, petrolio e gas – il cui effetto sul clima è noto da tempo alle grandi aziende petrolifere e del gas che hanno finanziato e finanziano tuttora lobby e disinformazione allo scopo di bloccare ogni serio cambiamento. La produzione industriale di carne e la sua base nell’agroindustria insieme alla pesca distruttiva sono altri importanti fattori di distruzione degli ecosistemi. L’attuale sistema economico in troppe aree è basato su una logica di “rapina ambientale” per il quale il profitto a breve termine è l’unica ragione. Abbiamo bisogno di un cambio di paradigma e ricostruire il nostro modo di produrre e consumare in una chiave più rispettosa dei limiti della natura”.

La prima vittima di tutto questo è il nostro ecosistema, ma quali sono le conseguenze per chi vive in aree più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici e spesso non ha i mezzi per potersi mettere in salvo?

“Già oggi la maggior parte delle persone che sono costrette a lasciare il proprio territorio e a migrare sono spinte da motivi legati alle crisi ambientali e dalle conseguenze dei cambiamenti climatici più che dalle guerre. E le stesse guerre sono spesso legate alla scarsità di risorse, come l’acqua – vitale per la sussistenza umana – il cui ciclo naturale è alterato dalla crisi climatica: in alcune aree i periodi di siccità si allungano, in altre aree invece le inondazioni legate ai fenomeni estremi hanno effetti distruttivi. Nel negoziato internazionale sul clima sono previsti anche fondi per aiutare i Paesi più poveri ad adattarsi a questa situazione, ma ancora non sono attivati nella quantità necessaria a fronteggiarla”.

Riscontrate una maggior sensibilità sul tema dell’ambiente e gli effetti sulle vite delle persone, rispetto agli inizi?

“Certamente oggi c’è una maggiore sensibilità, che è andata crescendo negli anni. Un riscontro lo abbiamo anche in termini di sostenitori della nostra associazione che sono più che raddoppiati in dieci anni, anche se in Italia l’attenzione dei media sui temi che trattiamo è minore rispetto ad altri Paesi. Questo si riflette sullo scarso spazio dedicato alla questione ambientale nel dibattito pubblico, per lo più ridotto agli aspetti di cronaca con pochi approfondimenti. Del resto importanti aziende, che hanno grandi responsabilità sulla crisi ambientale, continuano a inondare di pubblicità i media, cosa che purtroppo influisce – con poche meritorie eccezioni – sulla qualità dell’informazione ambientale”.

E da parte dei governi? Appena sei anni fa sono stati raggiunti gli accordi di Parigi, entrati in vigore l’anno successivo.

“L’Accordo di Parigi è stato un momento importante per la comunità internazionale, che ha preso coscienza in modo chiaro della sfida climatica, ma non ha ancora prodotto le politiche necessarie a combattere la crisi. Tra i vari Paesi e all’interno degli stessi, infatti, c’è un conflitto fondamentale. Lo si può spiegare bene con la richiesta della comunità scientifica: per evitare le conseguenze peggiori della crisi climatica buona parte delle risorse fossili di carbone, petrolio e gas vanno lasciate dove sono, sottoterra. Invece anche in Italia aziende petrolifere continuano a scoprire giacimenti in giro per il mondo e fanno di questo il loro obiettivo principale. Smettere di continuare a cercare petrolio e gas e spostare le risorse sulle fonti rinnovabili: questo dovremmo fare su scala globale e non lo si fa. Le rinnovabili sono cresciute ma dovrebbero andare a una velocità quattro volte superiore e questa transizione viene ostacolata. Vedremo se gli sforzi internazionali su scala europea e globale cambieranno questa situazione”.

Quali campagne, su quali temi, state portando avanti?

“La campagna sul clima è la nostra priorità dal 1990. Siamo riusciti a bloccare l’espansione del carbone con anni di azioni e processi legali, ad evitare di intraprendere strade rischiose e costose come il nucleare e a spingere grandi aziende nel settore finanziario a uscire dagli investimenti sul carbone. Ma molto c’è ancora da fare: gli interessi petroliferi e del gas fossile sono il principale ostacolo a una vera transizione energetica. Un’altra campagna che continueremo a sviluppare è quella contro gli allevamenti intensivi che hanno impatti sia globali che locali. L’obiettivo è un cambiamento sia delle politiche agricole che ad oggi continuano a sussidiare il sistema industriale di produzione della carne e sia un cambiamento culturale – che è già in corso per fortuna – verso una netta riduzione dei consumi di carne e un ritorno a una dieta mediterranea. Continueremo ad occuparci di inquinamento da microplastiche e a spingere l’industria ad abbandonare l’utilizzo della plastica usa-e-getta che ha provocato l’inquinamento di tutti gli ecosistemi, ormai invasi da microplastiche che entrano anche nella catena alimentare con effetti pericolosi”.