Papa: “La Carità non è l’amore di cui parlano canzoni e influencer”

"Alla sera della vita non saremo giudicati sull'amore generico, ma proprio sulla carità". Lo ha detto il Papa nell'udienza generale che oggi ha dedicato alla "terza virtù teologale, la carità"

Papa Francesco in Aula Paolo VI. Foto: Vatican News

“Alla sera della vita non saremo giudicati sull’amore generico, ma proprio sulla carità”. Lo ha detto il Papa nell’udienza generale, che oggi ha dedicato alla “terza virtù teologale, la carità”, che citando le parole di San Paolo ha definito “la più grande di tutte”, più della fede e della speranza.

“Siamo abituati davanti a un insulto o a una maledizione, a rispondere con un altro insulto o un’altra maledizione”, ha aggiunto a braccio. Ma la Carità di Dio “è un amore così ardito da sembrare quasi impossibile, eppure è la sola cosa che resterà di noi”. Riportiamo la catechesi integrale.

Papa: “La Carità non è l’amore di cui parlano canzoni e influencer”

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi parleremo della terza virtù teologale, la carità. Essa è il culmine di tutto l’itinerario che abbiamo compiuto con le catechesi sulle virtù. Pensare alla carità allarga subito il cuore, e la mente corre alle parole ispirate di San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi.

Concludendo quell’inno stupendo, l’Apostolo cita la triade delle virtù teologali ed esclama: «Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità» (1 Cor 13,13). Paolo indirizza queste parole a una comunità tutt’altro che perfetta nell’amore fraterno: i cristiani di Corinto erano piuttosto litigiosi, c’erano divisioni interne, c’è chi pretende di avere sempre ragione e non ascolta gli altri, ritenendoli inferiori. A questi tali Paolo ricorda che la scienza gonfia, mentre la carità edifica (cfr 1 Cor 8,1).

L’Apostolo poi registra uno scandalo che tocca perfino il momento di massima unione di una comunità cristiana, vale a dire la “cena del Signore”, la celebrazione eucaristica: anche lì ci sono divisioni, e c’è chi ne approfitta per mangiare e bere escludendo chi non ha niente (cfr 1 Cor 11,18-22). Davanti a questo, Paolo dà un giudizio netto: «Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore» (v. 20). Chissà, forse nella comunità di Corinto nessuno pensava di aver commesso peccato e quelle parole così dure dell’Apostolo suonavano un po’ incomprensibili. Probabilmente tutti erano convinti di essere brave persone, e se interrogati sull’amore, avrebbero risposto che certo l’amore era per loro un valore importante, come pure l’amicizia e la famiglia. Anche ai nostri giorni l’amore è sulla bocca di tanti “influencer” e nei ritornelli di tante canzoni. “Ma l’altro amore?”, sembra chiedere Paolo ai suoi cristiani di Corinto. Non l’amore che sale, ma quello che scende; non quello che prende, ma quello che dona; non quello che appare, ma quello che si nasconde.

San Paolo sulla virtù della Carità

Paolo è preoccupato che a Corinto – come anche oggi tra noi – si faccia confusione e che della virtù teologale, quella che ci viene solo da Dio, in realtà non ci sia alcuna traccia. E se anche a parole tutti assicurano di essere brave persone, di voler bene alla propria famiglia e ai propri amici, in realtà dell’amore di Dio sanno ben poco. I cristiani dell’antichità avevano a disposizione diverse parole greche per definire l’amore. Alla fine, è emerso il vocabolo “agape”, che normalmente traduciamo con “carità”. Perché in verità i cristiani sono capaci di tutti gli amori del mondo: anche loro si innamorano, più o meno come capita a tutti. Anche loro sperimentano la benevolenza che si prova nell’amicizia.

Anche loro vivono l’amor di patria e l’amore universale per tutta l’umanità. Ma c’è un amore più grande, che proviene da Dio e si indirizza verso Dio, che ci abilita ad amare Dio, a diventare suoi amici, e ci abilita ad amare il prossimo come lo ama Dio, col desiderio di condividere l’amicizia con Dio. Questo amore, a motivo di Cristo, ci spinge là dove umanamente non andremmo: è l’amore per il povero, per ciò che non è amabile, per chi non ci vuole bene e non è riconoscente. È l’amore per ciò che nessuno amerebbe; anche per il nemico. Questo è “teologale”, cioè viene da Dio, è opera dello Spirito Santo in noi.

Predica Gesù, nel discorso della montagna: «Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso» (Lc 6,32-33). E conclude: «Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (v. 35).

In queste parole l’amore si rivela come virtù teologale e assume il nome di carità. Ci accorgiamo subito che è un amore difficile, anzi impossibile da praticare se non si vive in Dio. La nostra natura umana ci fa amare spontaneamente ciò che è buono e bello. In nome di un ideale o di un grande affetto possiamo anche essere generosi e compiere atti eroici. Ma l’amore di Dio va oltre questi criteri. L’amore cristiano abbraccia ciò che non è amabile, offre il perdono, benedice quelli che maledicono. È un amore così ardito da sembrare quasi impossibile, eppure è la sola cosa che resterà di noi. È la “porta stretta” attraverso cui passare per entrare nel Regno di Dio. Perché alla sera della vita non saremo giudicati sull’amore generico, ma proprio sulla carità: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto me» (Mt 25,40).