Napoli, avvocati in manette contro la prescrizione

L'inagurazione dell'anno giudiziario è stata un'occasione di protesta contro la riforma della prescrizione. A Napoli gli avvocati hanno sfilato in manette alla cerimonia di apertura al Maschio Angioino. Le toghe partenopee hanno evidenziato che la legge rischia di trasformarsi in un “ergastolo processuale per cittadini imputati a vita”. Quando ha preso la parola la rappresentante del ministero della Giustizia, la dottoressa Concetta Lo Curto, gli avvocati si sono alzati in piedi esponendo silenziosamente cartelli di protesta con scritto “rispettate la Costituzione”. Alla cerimonia di apertura di Milano .- a cui erano presenti il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, Piercamillo Davigo, magistrato e membro togato del Csm, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, il sindaco di Milano Beppe Sala, la presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia e il vicepresidente del Csm David Ermini – gli avvocati penalisti hanno manifestano contro la riforma con dei cartelli che riproducono gl articoli 24, 27 e 111 della Costituzione: il 24 che è per il diritto di difesa, il 27 è la presunzione di non colpevolezza e il 111 è il giusto processo. 

Milano

La legge sulla prescrizione “presenta rischi di incostituzionalità” e “viola l'art. 111 della Costituzione”, ha detto Roberto Alfonso, procuratore generale di Milano all'inaugurazione dell'anno giudiziario.  Alfonso ha lamentato anche “spaventosi vuoti di organico e la mancanza di risorse che contribuiscono a determinare tempi lunghi del processo”; ha parlato anche del  “coinvolgimento di soggetti legati alla 'ndrangheta” nelle recenti inchieste milanesi sui traffici illeciti di rifiuti. “Prova – ha spiegato – dell'estremo interesse che l'organizzazione criminale nutre per un'attività illecita che garantisce lauti guadagni, l'ampliamento della rete relazionale attraverso contatti con un'imprenditoria ingorda e spregiudicata, e un trattamento sanzionatorio 'mite”. 

Roma

La prescrizione colpisce maggiormente nei processi per cui c'è condanna in primo grado e quindi quasi uno su due a Roma in Appello”. Ha esordito così il presidente della Corte d'Appello di Roma, Luciano Panzani, nel corso del suo intervento all'inaugurazione dell'anno giudiziario. Nel 2019 nel distretto del Lazio, ha proseguito, “i processi prescritti sono stati 19.500 su un totale di 125.000, pari al 15%. Di questi 48% in appello (7.743) e 10% al Gip-Gup (7.300), 12% al dibattimento monocratico (4.300), 118 al collegiale (5%). L'elevato numero delle prescrizioni – aggiunge Panzani – è stato determinato dal notevole ritardo nell'arrivo del fascicolo in Corte dopo la proposizione dell'atto di appello, cui si è aggiunto il tempo necessario per l'instaurazione del rapporto processuale, spesso condizionato da vizi di notifica”. Per Panzani “questo però è il risultato del collo di bottiglia a cui si è ridotto l'appello”. Per il presidente della Corte d'Appello, “la battaglia per risolvere il problema della prescrizione può essere vinta” potenziando “adeguatamente le Corti e per porre rimedio all'arretrato che si è accumulato, per i reati minori, un'amnistia mirata”. 

Napoli

La cerimonia è stata aperta dalla relazione introduttiva del presidente della Corte d'Appello Giuseppe De Carolis di Prossedi. “Viviamo in una società che sembra incattivirsi e nella quale vi è sempre più bisogno di legalità e di giustizia. È importante che chi subisce una violenza o un torto sappia di poter contare su un sistema giudiziario che è in grado di tutelare i suoi diritti”, ha esordito l'alto magistrato. “Per mantenere la fiducia dei cittadini è necessario innanzitutto un recupero dell'efficienza del sistema giudiziario. Una giustizia che arriva a distanza di molto tempo rischia di essere inutile. “Non credo che la fiducia dei cittadini si possa guadagnare con la ricerca del consenso popolare e con la visibilità mediatica, ma con l'applicazione indipendente della legge e con un comportamento eticamente corretto”, ha concluso De Carolis.

Reggio Calabria

La cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario a Reggio Calabria ha subito diverse interruzioni a causa di un malore che ha colpito il presidente della Corte d'Appello, Luciano Gerardis. Il magistrato, che dopo i primi soccorsi è comunque apparso vigile, si è accasciato al suolo mentre stava leggendo la relazione e dicendo che “la città è la capitale storica ed attuale dell'organizzazione criminale chiamata 'ndrangheta” che “per pervasivita', capillarità, ramificazioni interne ed internazionali e potenzialità delinquenziale è unanimemente ritenuta una delle più pericolose, se non la più pericolosa, organizzazione criminale del mondo”. Il magistrato ha messo in guardia rispetto alle “gravi conseguenze dell'inadeguatezza della dotazione di risorse per l'esercizio della giurisdizione”, prima di sentirsi male e venire soccorso. Dopo i soccorsi, la cerimonia è poi ripresa con l'intervento del Procuratore generale Bernardo Petralia, ma si è poi conclusa con largo anticipo rispetto al programma previsto. 

Catania

Quello “che si è concluso” è stato” “un 'annus horribilis' per la magistratura, avendo avvenimenti recenti e che hanno avuto grande eco nell'opinione pubblica, riproposto il dibattito sui valori morali e sui principi costituzionali che sorreggono l'indipendenza della magistratura”. Così il presidente della Corte d'appello Giuseppe Meliadò nella relazione inaugurale dell'Anno giudiziario di Catania. “Il rischio di reazioni emotive e di valutazioni affrettate del tutto scontate – osserva Meliadò – in una società che privilegia la velocità della comunicazione rispetto ai tempi della riflessione non ha impedito, tuttavia, che si avviasse su questi temi una discussione che, nonostante luci e ombre, ha cercato di distinguere tra quelli che sono i valori di fondo – e come tali irrinunciabili – dell'autogoverno e del pluralismo ideale ed organizzativo della magistratura e le esigenze di rinnovamento che, attraverso la scrittura di nuove regole, possono migliorare la capacità della magistratura di articolarsi come potere diffuso, ma non gerarchico, potere responsabile, ma soggetto solo alla legge, sollecitando l'inclinazione di ogni magistrato ad essere, in ogni momento della vita professionale, 'senza timore e senza speranze', per come ha voluto la Costituzione Repubblicana”.