“Nuovo” Patto di stabilità: cosa significa per l’Italia

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Se vi erano ancora dubbi sul fatto che il debito pubblico facesse paura, la proposta avanzata dai ministri delle finanze della UE il 19 dicembre scorso sulle “nuove” regole di finanza pubblica è di una chiarezza adamantina, a dispetto di tuti i tecnicismi in essa contenuti. Le “nuove” regole sono sempre le “vecchie” regole, ossia il contenimento dei deficit annuali sotto il 3% del PIL (e tendenzialmente sotto l’1,5%) e dello stock di debito sotto il 60% del PIL. E questo perché vi è un consenso generale sul fatto che la sostenibilità di un’economia è ancorata sul fondamentale principio che lo Stato deve erogare una spesa commisurata alla sua raccolta di tasse dai cittadini, con la flessibilità keynesiana di spendere un po’ di più in tempi di crisi. Gli stati che hanno usato male questa “flessibilità”, interpretandola come un’autorizzazione ad aumentare i deficit annuali senza limite, sono sempre falliti, innescando spirali di inflazione, caduta del commercio internazionale e crollo della reputazione, che li ha messi al margine dell’economia internazionale (si veda come esempio l’Argentina).

Non c’è dunque proprio alcuna novità in questo “nuovo” Patto di stabilità? In realtà qualche novità c’è ed è la gestione del “rientro” da parte degli stati della UE che ne sono fuori nei parametri ben noti e ribaditi. Mentre nel precedente patto questo rientro era fissato con indicatori numerici fissi, in questa nuova versione del patto gli indicatori sono diversi a seconda della situazione in cui i vari paesi si trovano ora, il tempo concesso per l’aggiustamento è un po’ più lungo per coloro che sono più distanti dalla meta e, soprattutto, ogni paese può aprire un negoziato per spiegare le proprie ragioni e prendersi impegni pluriennali di rientro che affrontino la congiuntura economica incerta. Tutto ciò in vista del superamento di quella rigidità istituzionale che aveva creato tante reazioni negative dopo la crisi finanziaria del 2008, alimentando i populismi e i partiti che volevano uscire dall’euro o addirittura dalla UE.

Senza entrare nei mille tecnicismi che verranno probabilmente ancora limati quando la proposta dei ministri delle finanze verrà approvata dal Consiglio, dalla Commissione e dal Parlamento nella prossima primavera, una cosa è chiara per un paese come l’Italia, che si trascina ormai da circa trent’anni un debito al di sopra del 60% del PIL (al momento siamo a ben il 145%), che deve essere ogni anno finanziato sui mercati nazionali ed internazionali. Questa cosa è che per i prossimi vent’anni almeno non ci possiamo permettere una “finanza allegra”: ogni anno occorrerà tagliare una fettina del debito con avanzi di bilancio, con vendita di beni di proprietà dello stato e con uno sviluppo robusto che aumenti il PIL. Il presente governo ha bensì ottenuto di non legare il rientro ad indicatori rigidi, ma non ha potuto – e forse nemmeno voluto – sottrarre la finanza italiana a quelle regole di buona amministrazione che sono necessarie per non “drogare” l’economia e non esporla ad una caduta verticale di reputazione che la renderebbero attaccabile dalla speculazione nazionale ed internazionale. Si tratterà di vedere nei prossimi anni se il governo italiano cercherà di “galleggiare” su quelle regole o affronterà con visione e responsabilità una riforma della spesa pubblica e della tassazione, per rendere la prima più efficace e la seconda più equa.