Morrone: “Per il contrasto alle mutilazioni genitali femminili servono sensibilizzazione e istruzione”

L’intervista di Interris.it al direttore scientifico dell’Irccs “Santa Maria e San Gallicano” di Roma professor Aldo Morrone

Una violazione dei diritti umani che incide nella carne viva di bambine e ragazze sono, per l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), le mutilazioni genitali femminili. Il 6 febbraio ricorre la Giornata internazionale della tolleranza zero per le mutilazioni genitali femminili, istituita nel 2012 dall’Assemblea generale delle Nazioni unite per arrivare all’eliminazione di queste pratiche che non hanno alcun beneficio per la salute dei soggetti su cui vengono eseguite. In una trentina di Paesi del mondo, tra l’Africa e l’Asia, queste persistono da secoli nella convinzione e nella convenzione sociale che si tratti di un passaggio fondamentale nella vita di una ragazza e che sia un modo per prepararla all’ingresso nell’età adulta e al matrimonio.

Alcuni numeri

Nel 2023, l’anno giunto al suo secondo mese da circa una settimana, secondo il Fondo per la popolazione dell’Onu (Unfpa), si stima che siano 4,2 milioni le bambine a rischio di essere sottoposte alle mutilazioni, praticate nel periodo tra l’infanzia e 15 anni,. E nel prossimo decennio, a causa del rallentamento delle attività di contrasto dovuto alla pandemia, potrebbero esserci altri due milioni di casi. Complessivamente, per l’Oms, oltre 200 milioni di donne, ragazze e bambine oggi in vita hanno subito mutilazioni genitali femminili in 30 Paesi dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia in cui vengono praticate. Cifra che potrebbe però rappresentare solo la punta dell’iceberg. Secondo il rapporto dell’Unicef “Il potere dell’educazione per porre fine alle mutilazioni genitali femminili”, queste sono praticate anche nelle comunità di almeno altri 20 Paesi, per cui il numero esatto di quante giovani e giovanissime vi siano state sottoposte resta ignoto.

L’istruzione

Il documento del Fondo Onu per l’infanzia evidenzia inoltre anche la relazione inversamente proporzionale tra il tasso di istruzione femminile e le probabilità di essere sottoposte alle mutilazioni. Infatti, le ragazze e le donne con un’istruzione primaria avrebbero il 30% di probabilità di opporsi a queste pratiche rispetto a coloro che ne sono sprovviste, percentuale che sale al 70 tra quelle che hanno l’istruzione secondaria, mentre tra le figlie di donne che non hanno un’istruzione le mutilazioni genitali femminili vengono più praticate – andando a ridursi al salire del livello scolarizzazione.

Costi diretti e indiretti delle mgf

Tre anni fa l’Oms ha lanciato il Female genital mutilation Cost calcultator per monitorare i costi finanziari diretti e indiretti, soprattutto a livello sanitario, di queste pratiche. Il totale si aggira intorno agli 1,4 miliardi di dollari all’anno, e se queste venissero abbandonate i costi sanitari si ridurrebbero del 60% entro il 2050 – altrimenti in assenza di contrasto potrebbero salire del 50%, per via dell’aumento della popolazione.

L’intervista

In occasione della Giornata internazionale della tolleranza zero per le mutilazioni genitali femminili, al Ministero della Salute si tiene oggi il congresso internazionale “Mutilazioni genitali femminili. Restituire dignità e salute alle donne tra nord e sud del mondo”, organizzato dal professor Aldo Morrone, direttore scientifico dell’Istituto dermatologico Irccs “San Gallicano” di Roma. In Terris lo ha intervistato.

Oltre quattro milioni di ragazze sono a rischio di essere sottoposte a queste pratiche. Come valuta l’entità del fenomeno delle mgf a livello mondiale? Il Covid ha rallentato i progressi nel contrastarlo?

“I dati presentati dalle diverse agenzie internazionali e istituti, ottenuti per esempio con la distribuzione di questionari nei villaggi, sono la punta dell’iceberg. Il numero delle giovani a rischio è aumentato principalmente a causa della crisi scatenata dalla pandemia soprattutto nei Paesi a basso reddito, in alcune aree dell’Africa e del Medio Oriente le risorse per gli altri servizi sanitari sono state indirizzate verso il contrasto al Covid e con la chiusura delle scuole molte bambine sono rimaste e casa. Prima del 2020 si stava registrando un parziale successo nella lotta alle mutilazioni genitali femminili, con l’impegno di andare nelle città e nei villaggi a spiegare che si tratta di pratiche dannose e dimostrando che andando a scuola e trovando un lavoro le giovani possono raggiungere lo stesso un ruolo sociale. Ma nonostante queste mutilazioni siano ormai conosciute per i loro effetti collaterali gravi e per i danni alla salute e molti Paesi abbiano varato una legge contro di esse, lanciato campagne di informazione e sensibilizzazione e investito nell’accesso scolastico delle ragazze, non riusciamo ad arrivare alla loro eliminazione, benché faccia parte degli Obiettivi di Sviluppo sostenibile 2030 dell’Onu per l’eliminazione delle pratiche dannose”.

Quali sono i rischi e i pericoli per la salute, fisica e psicologica, delle donne che vengono sottoposte a queste pratiche?

“Indipendentemente dalle condizioni igienico-sanitarie in cui vengono eseguite, ci sono una serie di rischi immediati come le infezioni ma anche la morte, se si taglia l’arteria femorale. A medio termine si possono verificare infezioni vescico-urinarie, mentre per quanto riguardo quelle a lungo termine, ci possono essere complicazioni per dare alla luce un bambino, col rischio del decesso della madre e del piccolo. Ci sono poi il dramma psicofisico della perdita del piacere nei rapporti sessuali e tutta una serie di effetti collaterali, alcuni dei quali ancora non studiati. E’ possibile successivamente riparare un’ampia casistica di danni legati alle mutilazioni, ma i rimedi principali restano la promozione della salute delle donne, la prevenzione e anche l’intervento precoce”.

Dove affondano le loro radici queste pratiche e come sono, se sono cambiate, nel tempo?

“Sono conosciute da secoli, fin dai tempi della medicina egiziana e di quella greco-romana, sono quindi pre-ebraiche, pre-cristiane e pre-islamiche. La religione non c’entra, sono invece fortemente imposte dai maschi alle donne, in contesti culturali dove le fanno credere che le mutilazioni genitali  siano positive per l’igiene, per la fertilità, per la bellezza, quando in realtà si tratta di una violenza di genere. In merito ai cambiamenti, l’Egitto aveva autorizzato l’infibulazione negli ospedali e nelle cliniche, assistendo poi a un aumento drammatico delle mutilazioni: si è allora compreso che il fatto di farle eseguire in contesti igienicamente corretti è comunque sbagliato perché si tratta sempre di un’alterazione senza alcun motivo clinico-terapeutico, per cui è stata abbandonata. Tra coloro che continuano queste pratiche non c’è cattiveria, ma la convinzione che le donne che vi si sottopongono possano poi aspirare a un ruolo sociale migliore, per cui viene abbassata l’età delle bambine su cui si eseguono in modo da rendere più difficile il loro rifiuto ed eventuali danni collaterali”.

Come valuta lentità del fenomeno in Italia, dove questa pratica è reato dal 2006?

“Manca l’applicazione della parte dissuasiva e delle campagne di sensibilizzazione per far accedere le persone ai nostri centri, così come quei servizi per l’integrazione che devono far comprendere alle bambine e alle ragazze che in Occidente possono avere un ruolo sociale senza doversi sottoporre quelle pratiche. La normativa italiana andrebbe rivista soprattutto sul piano degli investimenti finanziari per la sensibilizzazione e per i corsi di educazione all’affettività e sessuale nelle scuole, per comprendere le motivazioni delle mgf e come eliminarle”.

L’Oms calcola che i costi finanziari diretti e in indiretti per queste pratiche, soprattutto a livello sanitario, raggiungono gli 1,4 miliardi di dollari all’anno. Quali iniziative culturali, clinico-scientifiche e politiche mettere in campo per la loro eliminazione?

“L’Europa deve integrare le donne migranti e facilitare loro l’accesso ai servizi socio-sanitari, che invece stanno invece diventando sempre più esclusivi per chi può permettersi di andare dai privati, perché altrimenti è molto difficile poter ascoltare e rispondere alle loro esigenze. Le donne immigrate hanno una maggior incidenza di gravidanze in adolescenza, di matrimoni precoci e di aborti in adolescenza rispetto alle donne italiane. Servono allora investimenti e una ridefinizione del servizio sanitario nazionale, una riflessione a tutto tondo sulla violenza di genere che assume tante forme, a maggior ragione sulle donne immigrate. Così è fondamentale la scuola, per non lasciare ai margini della società bambine e ragazze che poi devono sottostare pratiche tradizionali che possono essere pericolose, come appunto le mutilazioni genitali femminili”.

Qual è l’impegno dell’Irccs “San Gallicano” nel contrasto alle mgf?

“Ce ne occupiamo da circa quarant’anni. La nostra attenzione è rivolta alle donne migranti che arrivavano nel nostro Paese dall’inizio degli anni Ottanta. Il ‘San Gallicano’ le accoglieva prive di documenti, prima della legge Turco-Napolitano, e loro hanno mostrato tutta la sofferenza della loro condizione. Abbiamo così deciso di andare nei Paesi dell’Africa e del Medio Oriente per le capire motivazioni di queste pratiche, abbiamo creato dei centri sanitari per tutela della salute materno-infantile, soprattutto nel Corno d’Africa, con l’ascolto e l’accoglienza abbiamo capito l’entità del fenomeno e abbiamo inoltre trasformato le operatrici che le eseguivano le mutilazioni in figure che tutelano la salute delle donne”.