Pandora Papers: come finirà questa storia?

Il nome Pandora Papers, in effetti, è decisamente azzeccato ed evocativo; l’inchiesta dell’International consortium of investigative journalists (Icij) ha scoperchiato un mondo di transazioni e di costrutti giuridici creato per minimizzare l’imposizione fiscale sugli attori coinvolti ma non è certo una novità.

Si torna a parlare di “paradisi fiscali”, termine orrendo che deriva dalla traduzione pedestre dell’originale tax haven (rifugio fiscale) scambiato per tax heaven, che è un τόπος ricorrente da anni, nella retorica sull’evasione fiscale, anche se, ormai, di fatto non più rilevante, visto che gli stati che applicano un segreto bancario assoluto, o quasi, unitamente a risibili imposte su redditi e patrimoni sono in via di estinzione.

Oggi, spesso si confonde un “rifugio fiscale” con uno stato meramente a bassa tassazione su capitali e redditi, anche per merito di una certa vulgata mediatica e politica, che è, però, una cosa assolutamente lecita in un’ottica di mercato che deve favorire la concorrenza non solo tra imprese ma anche tra stati.

Il nodo del discorso è questo: i Paesi a bassa tassazione sono il freno all’ingordigia fiscale degli altri che, dovendo competere con questi, sono obbligati a contenere ogni tentazione di innalzare troppo la pressione fiscale per evitare la fuga di capitali e imprese, soprattutto. La cosa importante, però, è che il sistema di bassa imposizione sia trasparente e strutturale, nonché che sia presente un sistema di scambio di informazioni per evitare fenomeni di riciclaggio o di occultamento di capitali.

In questo senso, quindi, stati come l’Irlanda, ad esempio, non possono essere definiti dei “paradisi fiscali” ma solo dei Paesi a moderata imposizione e, in questo senso, dei competitor importanti nell’attrarre aziende e capitali mentre accordi di tax ruling, come quelli che stringeva il Lussemburgo anni fa, rappresentano non solo una distorsione di mercato ma anche una condotta lesiva della concorrenza fra stati.

Per queste ragioni i Pandora Papers nascono già depotenziati poiché anche la questione precedente e similare dei Panama Papers ebbe, specularmente, riflessi legali assai modesti quanto più delle conseguenze politiche, in alcuni stati, e un effetto immaginifico su come, agendo su un sistema di società estere e tramite studi legali specializzati, sia possibile “evadere” (anche se il termine più corretto sia “arbitrare”) le tasse.

Con questa lunga introduzione si è voluto inquadrare quello che potrebbe essere l’apporto di questa nuova inchiesta su dove vadano i capitali dei “potenti”. La questione è interessante, senza dubbio, anche se difficilmente andrà più in là rispetto a una mera curiosità da parte di qualcuno e una certa indignazione da parte di altri, soprattutto per via dei nomi famosi coinvolti. Andiamo, però, a vedere di cosa si tratta.

Come anticipato in incipit, i Pandora Papers sono il risultato di un’inchiesta giornalistica, condotta dall’Icij, basata su milioni di documenti registrati in società “offshore” da parte di grosse personalità; il lavoro ha coperto un periodo temporale di 25 anni, tra il 1996 e il 2020, e ha toccato più di 90 stati al mondo. Il risultato finale quale è stato, però?

Sintetizzandolo con l’accetta è che chi ha le risorse può permettersi di strutturare una rete per arbitrare al minimo le imposte, avvalendosi dei migliori consulenti e di società specializzate e chi non ne ha continuerà a pagare quanto richiesto dal suo stato di residenza, punto.

Diciamo che, alla fine, non ci sia nulla di nuovo sotto il sole e che si punti, per l’ennesima volta, un j’accuse verso quegli stati che abbiano deciso di essere attrattivi con un abile mix di servizi e bassa imposizione.

Fa specie leggere che tra i “paradisi fiscali” ci siano stati come il South Dakota, la Florida, il Delaware, il Texas o il Nevada, visto che si fa passare l’idea, errata, che là non si paghino le tasse… no, invece, si pagano le imposte federali USA, progressive dal 10% al 37% per i privati e flat al 21% per le imprese, ma non le imposte statali e, per i residenti non domiciliati, sono escluse anche le imposte locali.

Discorso simile può essere applicato alla Svizzera che, nell’immaginario comune, resta l’esempio del Paese in cui sia possibile nascondere i fondi neri ed evadere le tasse quando sono anni che non è più possibile accendere un conto cifrato (e, quindi, anonimo) e che, con la voluntary disclosure, ha avviato un protocollo effettivo di comunicazione fiscale con l’Italia. Esisto ancora “rifugi fiscali”, quindi?

In realtà sì, come è possibile leggere nei documenti UE dove in “black list”, tra i Paesi non collaborativi in materia fiscale, restano Samoa americane, Figi, Guam, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini degli Stati Uniti e Vanuatu ma operare da questi stati non è sicuramente agevole considerate le normative internazionali esistenti in merito di antiriciclaggio e di contrasto all’evasione fiscale.

Come finirà questa storia a questo punto?

In una bolla di sapone sicuramente no, perché a monte c’è un’inchiesta giornalistica di alto livello e che ha coinvolto centinaia di professionisti che ha mostrato come i “potenti” proteggano la propria ricchezza ma sicuramente difficilmente avrà dei risvolti legali poiché tutte le operazioni di arbitraggio fiscale, credibilmente, sono state condotte all’interno dell’alveo legale, salvo madornali errori di strutturazione dell’impianto come quello che coinvolse un noto motociclista italiano anni fa e che gli valse una sanzione milionaria, ad esempio.

Quello che deve essere chiaro, ripetiamolo, è che la concorrenza fiscale fra stati sia un baluardo da difendere perché garantisce sia la moderazione tassatoria locale sia una certa libertà di scelta, per chi se lo possa permettere, nell’allocazione del proprio patrimonio, potendo valutare diversi modelli e trovare quello più consono alle proprie esigenze, con fiscalità molto bassa ma magari privo di servizi e con una stabilità politica incerta o uno più strutturato e sicuro ma più costoso.