Lo smart working non è un fine ma un mezzo

La pandemia ci ha fatto conoscere anche nuovi modi di celebrazioni liturgiche. Le sante messe domestiche, magari in streaming dal sito della Parrocchia; o vissute sulle piattaforme più performanti come Zoom o Hangouts Meet, che ci donano una nuova modalità di relazione. Il verbo dello smart working si diffonde a macchia d’olio e contagia – si può ben dire – anche la Pubblica Amministrazione. La pandemia ha sconvolto comportamenti e paradigmi che sembravano consolidati e definitivamente acquisiti. Nella dimensione privata come in quella istituzionale. Le novità imposte dal Covid-19 non hanno risparmiato neppure la più conservatrice e misoneista delle realtà nazionali: la Pubblica Amministrazione (PA). I dipendenti pubblici da circa un mese si sono dovuti confrontare con il cosiddetto smart working; il lavoro agile o telelavoro che prima della pandemia aveva interessato una fetta minuscola del nostro apparato burocratico.

E’ almeno dalla fine degli anni Novanta che si parla di lavoro agile anche nella PA, come opportunità di ripensare il lavoro in un’ottica più intelligente, mettendo in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario di lavoro, lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro, a fronte di una loro maggiore responsabilizzazione sui risultati. A ben vedere però quello che oggi viene proposto come smart working, piuttosto che un modello appare piuttosto un semplice modo per tenere i dipendenti lontano dagli uffici. Un’articolazione opportuna di distanziamento sociale, non di efficiente organizzazione. L’obiettivo dello smart working, infatti, non è tenere distanti i lavoratori tra di loro e dalla loro sede abituale di lavoro, ma sganciare la prestazione da un legame, non sempre ragionevole ed efficiente, di tipo orario e fisico. Tempo e luogo diventano variabili funzionali al risultato da conseguire.

Insomma, l’obiettivo dello smart working non è tenere lontani i dipendenti dal luogo di lavoro, ma consentire a loro di lavorare in modo più “intelligente”, più flessibile, più agile. Il modello dello smart working è spesso invocato nei lavori in cui si accendono confronti a distanza, dove il contagio – ancora una volta il verbo diventa inevitabile – delle idee precede quello fisico. I gruppi di lavoro per trovare software più performanti hanno bisogno di risorse di qualità che difficilmente fioriscono insieme nello stesso ufficio.

Lo smart working vero è per sua definizione “intelligente”, non per forza remoto. La remotizzazione è una conseguenza della ricerca di qualità, non il pedaggio da pagare per la sicurezza interpersonale. Certamente lo shock di questi giorni può fornire spunti interessanti per rodare la macchina e testare il meccanismo, ammesso che resti chiaro l’obiettivo, il fine del lavoro “smart”. Nella PA l’obiettivo è sempre uno solo – al netto delle deviazioni dei burosauri di ogni tempo e di ogni luogo – e non può che essere la soddisfazione del cliente, cioè del cittadino, che dalla PA deve ottenere servizi smart. Cioè intelligenti e soprattutto fruibili.

Lo smart working non è un fine ma un mezzo per provare a rendere maggiore e più incisiva la capacità del sistema pubblico di rispondere ai cittadini. Perché ciò accada, preliminarmente il lavoro agile deve poter contare su una vera e massiccia alfabetizzazione digitale e sull’esistenza di efficienti infrastrutture di rete, le famose autostrade informatiche, evocate spesso, ma costruite con minor solerzia, o per lo meno non distribuite nel Paese con equanimità.

Al cittadino non deve spettare un onere aggiuntivo per sopportare gli effetti negativi di una organizzazione disegnata per schemi ideologici e magari con qualche improvvisazione tecnologica e culturale. Non esiste un telelavoro che preveda la perenne remotizzazione dall’abituale luogo di lavoro, o una indistinta applicazione del lavoro a distanza. Ci sono attività e funzioni che meglio di altre si prestano per essere svolte da remoto. A condizione che non producano disagi ulteriori agli utenti, cioè ai cittadini. Insomma, ben venga lo smart working; e ben venga anche nell’organizzazione della Pubblica Amministrazione. A condizione che sia smart working e non un succedaneo dettato da una emergenza che invita semplicemente a diradare i contatti fisici. Non può essere questo il paradigma o peggio l’assunto ideologico.

Ben venga lo smart working, quello vero, ma cerchiamo di non ricondurre alla agilizzazione della prestazione lavorativa pubblica effetti salvifici. Se non riusciremo a rimuovere quella perniciosa “cultura dell’adempimento” che affligge una burocrazia più incline ad avere le carte a posto che a conseguire il risultato, la PA non sarà mai né agile nè smart. E in questo senso si deve anche accuratamente evitare che lo stesso smart working si trasformi in un nuovo adempimento.

La vera cultura dello smart working deve affermare la centralità degli obiettivi, dei risultati da conseguire, superando formalismi e barocchismi. La sfida è impegnativa e più che l’informatica riguarda la mentalità del professionista della pubblica amministrazione. Soprattutto dei Dirigenti che saranno chiamati ad organizzare non senza fatica il lavoro altrui secondo fasi, cicli ed obiettivi. Anche i lavoratori del pubblico impiego e i sindacati, del resto, dovranno aderire ad uno schema organizzativo che rivaluta e riadatta istituti come lo straordinario, la sicurezza del lavoro e la produttività. Comunque vada il nemico è e resta l’approccio di chi resta abbarbicato ai formalismi del procedimento, senza chiedersi se siano utili e funzionali. Questa deviata burocrazia è il miglior brodo di coltura per ogni nuova specie di corruzione.

Non solo, ogni nuova forma di organizzazione del lavoro deve valorizzare la persona e le sue relazioni. Lo smart working, per essere davvero un lavoro intelligente e responsabile e indirizzato al bene di chi lo pratica e di chi ne usufruisce, deve rafforzare le relazioni, non marginalizzarle. Per rimodellare gli odierni sistemi economico-finanziari, ciascuno di noi – si legge nel documento “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones”, letteralmente “questioni economiche e finanziarie” di un paio d’anni fa – “può fare molto, specialmente se non rimane solo”: “numerose associazioni provenienti dalla società civile rappresentano in tal senso una riserva di coscienza e di responsabilità sociale”. Oggi più che mai, “siamo tutti chiamati a vigilare come sentinelle della vita buona ed a renderci interpreti di un nuovo protagonismo sociale, improntando la nostra azione alla ricerca del bene comune e fondandola sui saldi principi della solidarietà e della sussidiarietà”.

Avanti con l’esperimento in questi giorni di pandemia. Con tutte queste attenzioni. Ma sapendo, con Sant’Agostico, che “ex malo bonum”. E forse l’isolamento forzoso potrà favorire la scaturigine di nuove prospettive per la nostra Pubblica Amministrazione. Il punto di arrivo? Magari uno smart working vero che potrebbe diventare uno degli strumenti per rendere più efficace lo sforzo della Pubblica Amministrazione, soprattutto dei Comuni e degli Enti locali, nella grande fase di ricostruzione del Paese che ci aspetta e che ci spetta. Senza enfasi ideologica e mantenendosi rigorosamente con i piedi per terra. Anche quando si tiene il mouse tra le dita.