La voce del padrone

giacovazzoE’ la voce del padrone. Il resto in politica non conta più. Vietato dissentire. Anche solo nell’intimità del proprio pensiero. Ammesso che si voglia conservare la poltrona. Fedeli sempre, ma mai agli ideali, rottamati tra la vecchia chincaglieria del Novecento. Fedeli al padrone, come i cani. Nell’era dei partiti padronali è così. Comandano capi e capetti, come il marchese Del Grillo: “Io so’ io e voi non siete un c…” Anche quando obbligano a fare cose “contronatura”, impossibili da spiegare agli elettori. Berlusconi è riuscito ad imporre a quel che resta di Forza Italia di votare alla Camera contro le stesse riforme proposte e votate da Fi al Senato. Solo per ripicca a Renzi, che non l’avrebbe accontentato sul Presidente della Repubblica. Una prova ”d’affetto” dei suoi come nel 2011, quando votarono in blocco la mozione Paniz che accreditava Ruby Rubacuori come nipote di Mubarak. Situazione politica grave, con Silvio, ma mai seria, per dirla con Flaiano. Salvini, passato dai quiz di Canale 5 alla leadership della Lega senza mai lavorare un giorno, imbarca i neofascisti di Casapound ed espelle il sindaco di Verona Tosi che è molto più leghista di lui. Lo dovrà spiegare meglio ai fedeli del dio Po quando avrà perso il Veneto.  Espulsioni e gogna in rete anche per i 5 Stelle dissenzienti. Perchè lo slogan della prima ora “uno è uguale a uno” non è mai esistito, se non tra Grillo e Casaleggio. E poi il Pd, il più grande partito di centrosinistra che ha realizzato le più grandi riforme di centrodestra. Il regno dei maldipancia e dei penultimatum. Dove tanti dissentono e minacciano, ma nessuno vota contro. Se non contro il proprio Dna.

Fedeli al capo, a costo di stravolgere la Costituzione e distruggere lo Statuto dei Lavoratori. Sotto il ricatto di un premier/segretario che minaccia di andare a votare e – chi vuole capire capisca – di non ricandidare gli oppositori. Giusto per notare la differenza, nel ’47, quando in Parlamento si scriveva la Costituzione, ai banchi del governo non sedeva l’esecutivo (De Gasperi), ma la Commissione dei 75 composta da maggioranza e opposizione. Oggi invece, la Carta si riscrive a colpi di maggioranza, su un progetto governativo mai sottoposto agli elettori, nato dal misterioso patto del Nazareno, con il presunto capo dell’opposizione, che s’è per giunta defilato al novantesimo.

Se per le riforme costituzionali qualche speranza di reazione democratica c’è ancora (mancano due voti), il Jobs Act è andato. Con i voti favorevoli del PD lo Statuto dei Lavoratori lascia il posto a quello dei Padroni: con libertà di licenziamento, demansionamento e quindi anche di mobbing e abusi nei luoghi di lavoro. Nessuno ha corretto niente, neanche il maccheronico errore di inglese. Perchè a voler fare gli americani, si doveva scrivere con il genitivo sassone: Job’s Act.

A monte dei partiti padronali e della cosiddetta politica liquida c’è un ventennio di Berlusconismo che ha stravolto la cultura democratica di questo paese. Tutto ebbe inizio con un messaggio a reti Mediaset unificate (con la calzetta sull’obbiettivo per ammorbidire le rughe), per finire nei 140 caratteri di un tweet. Tutto si regge ancora sul sistema elettorale che mette in mano alle segreterie di partito la nomina dei parlamentari e quindi la loro cieca obbedienza. Un sistema bocciato dalla Corte Costituzionale che questi partiti stanno riproponendo pressochè invariato, sotto mentite spoglie (capilista bloccati e premio di maggioranza abnorme). Ora anche questa riforma fa storcere il naso e puntare i piedi a mezzo PD: ce la faranno almeno stavolta i nostri eroi?

Perché se i partiti padronali perdono consensi giorno dopo giorno e il primo partito è quello del non voto, ormai saldamente oltre il 40%, il motivo è anche questo: gli elettori sono stanchi di andare alle urne come puro atto di fede. Un campanello d’allarme che i padroni si ostinano serenamente a non sentire.