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Il soffio conciliare sulla religiosità

Il Concilio Vaticano II ha messo in moto un epocale processo di trasformazione. Da una religiosità segnata per lo più dalla norma, da regole imposte come dovere di comportamento, con la funzione di disciplinare la spiritualità ma di fatto anche l’esistenza pratica del credente, a una religiosità che, ricentrandosi sulla persona, dava o almeno avrebbe dovuto dare spazio alla coscienza, e, quindi, alla libertà, alla responsabilità del cristiano. Favorendone così una maturazione sul piano della fede, da tradurre poi in un nuovo stile di vita, da testimoniare coerentemente nel quotidiano. Un processo cominciato da tempo, ma che ha avuto, e continua ad avere, una evoluzione molto lenta, molto contrastata. Da un lato, pur tra eccessi ed ambiguità, sta plasmando una nuova generazione di cristiani; dall’altro, si porta dietro tutti i rischi, i pericoli, le incomprensioni e le resistenze proprie delle fasi di passaggio. E in mezzo – a motivo di questa situazione transitoria, confusa, e mai decisamente affrontata – una schiera di cristiani che tende ogni giorno ad infoltirsi. Sono i cristiani solo “anagrafici”, la loro fede è finita il giorno stesso del battesimo.

Sono i cristiani con una religiosità del tutto soggettiva, perché hanno adattato la fede, e in particolare la morale, alle loro esigenze. Sono – questo l’aspetto più allarmante – i cristiani ormai immersi profondamente nell’indifferenza che la società d’oggi, sempre più secolarizzata, sempre più materialistica, mostra nei confronti di Dio. Insomma, tentando di spiegarlo con il simbolismo di una immagine, pensate a una persona (il popolo cattolico) che tenti di attraversare un torrente di montagna, acqua bassa ma impetuosa. E’ esattamente a metà del guado. Non vuole tornare indietro (a una religiosità formale, normativa, precettistica, che però offre ancora “certezze”), ma neppure riesce ad approdare alla riva che ha davanti (una religiosità adulta, responsabile, radicata nella coscienza, che però è spesso allergica alle regole). Se resta così, c’è il rischio che quella persona venga travolta dalla corrente (una religiosità snaturata, svuotata dei suoi valori, e che sconfina ormai nell’agnosticismo). Ce la farà, la Chiesa cattolica, ad attraversare il guado? Ad innestare la conoscenza e l’amore di Cristo nel cuore e nella vita delle future generazioni?

Prima di parlare dell’oggi, bisogna necessariamente riprendere il discorso da capo. Bisogna risalire alle origini, alle fondamenta, per così dire, della religiosità, e seguirne poi il cammino lungo la storia dell’umanità. Ebbene, all’inizio di questa storia, non c’erano religioni, non c’erano Chiese, comunità spirituali, sette. Non c’era niente. Eppure, l’uomo di allora era religioso. A modo suo, ma profondamente, spontaneamente, religioso. Lo era per quella legge naturale che da sempre è inscritta nel cuore umano; e che permette di discernere, per mezzo della ragione, ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è verità e ciò che è menzogna. Ma era religioso, l’uomo primitivo, anche perché, a differenza dell’uomo venuto dopo, e più ancora a differenza di quello moderno, poteva “vedere” più facilmente la presenza di un Essere supremo nella realtà che lo circondava, nell’esperienza che faceva ogni giorno. La luce e le tenebre, il cielo e la terra, le acque, i germogli, le stelle, i pesci, i volatili, gli animali, tutto questo, prima che venisse raccontato nel libro della Genesi, era la testimonianza visibile, concreta, di un gesto creativo. E quindi l’uomo era portato dal suo stesso spirito a venerare l’Autore di quel gesto, considerandolo il principio della propria storia e della storia degli altri uomini, fonte e giudice di ogni bene. A quel tempo, ovviamente, si trattava di una religiosità soprattutto personale, e che sconfinava spesso nell’idolatria, nella superstizione. E tuttavia, era un uomo che pregava. E pregare, per gli antichi, era respirare. Era vivere.

Poi, con il progredire dell’umanità, erano cominciate a sorgere, e a crescere, alcune tradizioni religiose, più comunitarie, più stabili, benché ancora in forme imperfette, pagane, ambigue, com’era specialmente nelle religioni naturalistiche e politeistiche. Da quelle orientali, legate spesso al culto degli antenati, a quella scandinavo-islandese. Le più famose, la comunità armena, quella alessandrina, quella siriana, quella etiope. Ognuna aveva i suoi atti cultuali e rituali. Ognuna aveva una sua concezione di quell’Essere superiore, un suo modo di onorarlo, di pregarlo, un suo modo di chiamarlo. Nella mitologia greco-romana, c’era un dio sommo, Giove, al di sopra di tutti gli dèi che popolavano l’Olimpo: Diòs o anche Diòspiter, era chiamato in greco; e, in latino, Juppiter, che proveniva da Deus Pater, Dio Padre. Nell’antica religione indiana si chiamava Dio Narayana (il dio cosmico) o Vasudeva (il dio storico supremo). “Al Dio sconosciuto”, c’era scritto – come più tardi avrebbe raccontato Paolo nell’Areopago – su un’ara ateniese. L’uomo, anche senza averne un’immagine precisa, venerava Dio, lo invocava nella sua preghiera, e continuava a cercarlo, “a tentoni”, nella speranza di scoprirlo. Nel corso della sua storia i diversi elementi del cristianesimo sono stati variamente accentuati, interpretati e vissuti e ciò spiega il frazionamento cui è andato soggetto; d’altra parte, dal sentimento stesso della fratellanza fra gli uomini, dalla nozione della bontà e misericordia divina e dall’esempio e insegnamento del Cristo sono derivati non soltanto l’impulso missionario a diffondere la verità tra tutti gli uomini per renderli partecipi della salvezza, ma anche l’anelito alla riunione di tutti i cristiani, a sua volta espressosi in maniere diverse.

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