Denatalità in Italia: il problema non è solo economico

L’articolo di Raffaele Bonanni sulla situazione demografica dell’Italia presenta un quadro veramente desolante. Un Paese, il nostro, sulla soglia (se pure non l’abbiamo già varcata!) di un percorso che, nel giro di una generazione, porterà l’Italia a perdere definitivamente le caratteristiche di popolo portatore di una eredità culturale e civile: qualcosa di simile alla Grecia che oggi può rivendicare un passato ricco e glorioso ma staccato dal presente e per questo non più in grado, come popolo e come cultura, di incidere sul futuro.

La lettura dell’articolo mi fatto sorgere alcune domande. La prima, che per la verità mi pongo da tempo, è come mai queste riflessioni stiano emergendo solo ora. Il trend demografico e le sue conseguenze erano già chiari e certi almeno dalla fine dello scorso millennio. Almeno 25 anni sono passati, una intera generazione, senza una riflessione sui possibili scenari creati dalla prosecuzione del trend demografico e dalle possibili (alcune certe) accelerazioni che si sarebbero presentate negli anni successivi. Accanto ai temi, politici ed economici, legati alla natalità avrebbero così trovato una adeguata collocazione anche quelli legati all’immigrazione, ancora oggi abbandonata alla casualità, al di fuori di qualunque normativa civile e, di conseguenza, spazio sconfinato per speculazioni non solo economiche.

Ma il primo segnale di allarme avrebbe potuto essere colto già nella più accelerata caduta della natalità che caratterizza gli anni immediatamente successivi alla introduzione della legge 194. Più di 40 anni fa! La domanda che rimane è: inerzia per ignoranza o per scelta? In nessun caso la classe politica degli ultimi trent’anni può essere assolta dalla responsabilità di aver ignorato una questione così seria, decisiva per il futuro del Paese. Ma se fosse per scelta saremmo di fronte ad una forma di eutanasia di un popolo!

A questo si lega una seconda domanda. La seconda parte dell’articolo di Raffaele Bonanni propone dettagliati interventi socio-economici per almeno stabilizzare la tendenza al declino demografico. Le proposte sono tutte condivisibili ma forse non centrano gli aspetti più profondi del problema. Pensare che oggi si rinunci a fare figli perché si è poveri è distorcente. Anche se servizi ed incentivi economici possono rappresentare un segnale importante del valore che la società dà a chi si assume il compito di far nascere e di crescere una nuova generazione.

Questa prospettiva non è però sufficiente. Nella realtà ci sono molti altri segnali rivelatori di un tarlo nella cultura diffusa, e quindi nell’autocoscienza di ogni cittadino italiano, anche in chi magari ha tre o quattro figli. Tra questi, particolarmente significativo è il fenomeno dei NEET, ormai stabilmente intorno al 20% delle generazione dei ventenni. Ma le indagini sulle generazioni dei giovani adulti (o tardo-adolescenti?) rivelano anche che, nella grande maggioranza, l’atteggiamento prevalente è centrato sul “qui e ora”, senza una prospettiva sul futuro proprio e, a maggior ragione, su quello del contesto umano in cui si vive. Quindi, perché assumersi l’onere di una vita nuova che innegabilmente ti limita, anche pesantemente, nelle scelte e nei comportamenti?

Senza aver chiaro che senza intervenire su questo atteggiamento, caratterizzato da un individualismo autoreferenziale che spesso sfocia nel narcisismo, gli interventi economici non riusciranno a incidere significativamente sul trend demografico a meno di essere tanto ingenti da rappresentare quasi un ‘reddito di cittadinanza’ legato non alla povertà ma alla decisione di riconoscere il valore (anche economico, come giustamente rileva Bonanni) che fare figli ha per l’intera società. Prospettiva questa che appare però rasentare l’utopia. Il semplice accenno a questa possibilità fa insorgere, come è accaduto anche in questi giorni, chi lega l’aiuto economico alla generatività esclusivamente alla lotta per l’uguaglianza delle possibilità e al contrasto alla marginalità, ignorando che dove esistono politiche sulla natalità almeno parzialmente efficaci (come ad esempio in Francia e Germania) esse sono fondate proprio sulla “universalità” che le caratterizza.

Per questo è chiaro che occorre tempo. Mi auguro perciò che  l’articolo di Bonanni rappresenti per questo giornale l’inizio di un confronto aperto in grado di rendere più chiaro il problema posto dalla denatalità, di farne comprendere le motivazioni, di dare un contributo ad un cambiamento di prospettive e di attese senza cui la battaglia è già persa.