Contrastare la violenza con la cultura della pace e del rispetto

Foto di Marc-Olivier Jodoin su Unsplash

Ogni momento di dolore come quello della morte di Giulia Cecchettin meriterebbe silenzio e riflessione. Molto silenzio e molta riflessione. Tuttavia la nostra incorreggibile società risponde con molto rumore e tante dichiarazioni spesso prive di una meritoria riflessione. È comprensibile che il silenzio dev’essere un modo di rispetto e non un atteggiamento di complicità e di menefreghismo, e che al silenzio devono necessariamente seguire delle prese di posizione nette e chiare contro la violenza. Tuttavia queste riflessioni devono andare al fondo della questione e non soffermarsi su questioni ideologiche lontane dalle vere cause della crisi che stiamo attraversando.

Sarà necessario prima di tutto riconoscere che la violenza non è un’invenzione dell’uomo moderno, né il frutto marcio di qualsivoglia ideologia, educazione o scuola di pensiero. Di certo le circostanze, la storia personale e dunque l’educazione possono creare i presupposti per espressioni più o meno evidenti di violenza, ma questa è di fatto tragicamente insita nel cuore dell’uomo, nella sua natura ferita e pervertita dal peccato originale. Questa è l’idea di fondo dell’antropologia cristiana che non si può ignorare perché è l’unica che spiega, o per lo meno cerca di spiegare, con coerenza il motivo del male di cui l’uomo è capace.

In seconda battuta è necessario ricordare che non è solo l’uomo maschio ad avere un istinto verso l’odio e la violenza ma l’uomo in generale. Ed è necessario riconoscerlo per non cadere nella falsa retorica del maschio-cattivo e della femmina-buona che sta portando altrove il discorso, lasciando campo aperto a strumentalizzazioni ideologiche e politiche (i discorsi sui frutti del patriarcato o sulla complicità del governo). Uomini e donne condividono infatti la stessa natura, mentre ciò che li distingue è la psiche e le attitudini naturali. Solo così può spiegarsi il fatto che gli uomini siano in gran parte i protagonisti di tali violenze e non cercando differenze ontologiche che non esistono per farne una guerra tra sessi.

Infine c’è il grande tema educativo che oggi si impone come il tema centrale sul quale concentrarsi. E con ragione: va diffusa certamente una cultura del rispetto e della pace, del dialogo e della tolleranza. Ma su quali basi poggiare questi valori? È questo il nocciolo della questione. Non è da oggi, né da ieri, che nelle scuole educatori e maestri si impegnano a diffondere tra i ragazzi i valori della accoglienza e del rispetto fino al punto di diventare noiosi. Ed è proprio qui che la nostra società registra il suo più clamoroso fallimento pur incapace di riconoscerlo e di porvi rimedio.

I nostri giovani sono abili ormai, imbevuti nella cultura della tolleranza e del rispetto delle differenze, a compilare un tema scritto o a preparare una esposizione orale sul tema della pace e del rispetto. Ma fuori dalle aule scolastiche, terminati i corsi di indottrinamento morale e ideologico, restano soli alle prese con la vita, fatta di eventi, di relazioni, di situazioni spesso dolorose o quantomeno problematiche. Non è difficile capire che nella società attuale l’uomo non ha gli strumenti adatti per fronteggiare queste situazioni-limite. Come spiega il sociologo Luca Ricolfi la «degenerazione della cultura dei diritti […] ha reso tanti maschi del tutto incapaci di fare i conti con il rischio di fallire».

Per questo chi continua a proporre corsi di educazione sessuale, anti-bullismo, anti-omofobia, lezioni sul rispetto o conferenze sul sesso, il gender e l’omosessualità, nonché leggi stringenti e pene più severe, soffre un’inguaribile miopia. Sono soluzioni che placano la coscienza ma che purtroppo si rivelano semplicistiche, affrettate e spesso inquinate da battaglie ideologiche e politiche. Tutto può concorrere alla causa ma se non si tocca il cuore ognuno rimarrà con un testo scritto, una lezione che mai si incarnerà nel proprio vissuto quotidiano.

Così afferma a Tempi la psicologa Vittoria Maioli Sanese: «andiamo alla ricerca di soluzioni immediate e mai prese dal “dentro di sé”. Mi riferisco alle soluzioni demandate a Stato, politica, magistratura. Possiamo fare tutte le leggi del mondo, ma se manca il passaggio dentro di sé, il cambiamento della persona, non succederà nulla di significativo».

Il tentativo utopico di costruire una società del bene (o “impero del bene” come lo definì Philippe Muray) dall’esterno, attraverso l’educazione e le leggi, non aiuterà a ri-costruire l’uomo né a rafforzarlo interiormente se questi non riuscirà a cambiare nel profondo, a compiere una conversione del cuore (metanoia) che le dia il coraggio e la forza per una svolta che coinvolga tutta la sua persona a partire dalle relazioni sociali e familiari.

È per questo che oggi la società che ha bandito Dio dal suo orizzonte non può che riconoscere il fallimento di un progetto sociale di cui oggi non raccoglie che frutti amari. Il filosofo francese Remi Brague analizza questo fenomeno nel suo libro Le regne de l’homme. Genèse et échec du proect moderne (“Il regno dell’uomo. Genesi e fallimento del progetto moderno”). Brague indaga sul fallimento del progetto dell’uomo moderno che ha rifiutato Dio come fonte normativa. Un processo che il filosofo vede iniziare con Francis Bacon e la sua idea di dominio sulla natura. Una volta delegittimato Dio l’uomo moderno si è voluto sostituire a Lui per diventare fondamento (normativo e legislativo) di se stesso sottomettendo il divino (naturale e sovrannaturale) all’ordine umano.

C’è dunque alla base dello smarrimento di umanità e di civiltà la frattura di un ordine che per secoli ha governato il mondo. Oggi l’uomo ha eliminato Dio dal suo orizzonte e nel suo delirio di onnipotenza si è sostituito ha deciso di farsi dio e legislatore di se stesso (autopoiesi). Come ha scritto il dott. Massimo Gandolfini sul quotidiano La Verità: «Si tratta di avere il coraggio di dire che l’aver cancellato Dio dalla storia dell’uomo, l’aver costruito e deificato un “superuomo” cittadino di un nuovo umanesimo che può fare a meno di Dio, ponendolo al centro dell’universo, “etsi Deus non daretur”, sta provocando la perdita della dimensione umana, di creatura, che riconosce valori e norme iscritte nella legge naturale, che l’uomo stesso non si è dato, ma che deve imparare a conoscere e servire»