Risiko nel Pacifico: la Cina lancia i dadi

La visita ufficiale compiuta questa settimana da Xi Jinping a Manila conferma il nuovo clima instauratosi tra la Cina e le Filippine. L'insediamento al potere di Duterte ha significato un evidente cambio di rotta rispetto alla tradizionale politica estera adottata dai suoi predecessori a partire dal Dopoguerra. Il vulcanico ex sindaco di Davao ha dimostrato di voler – se non proprio spezzare – quantomeno allentare il cordone ombelicale con gli Stati Uniti. Un'operazione spregiudicata che difficilmente può essere letta soltanto come una rivendicazione di piena sovranità e non, piuttosto, come l'adozione di una strategia di avvicinamento all'altra superpotenza con interessi nel Pacifico. La progressione della cooperazione bilaterale sta lì a testimoniare che Manila non vede più Pechino come una minaccia ma ne riconosce, invece, il ruolo di interlocutore di cui non si può fare a meno, probabilmente più imprescindibile – in virtù della collocazione geografica – degli “amici di sempre” americani. Tanto più se questi ultimi hanno dimostrato di voler concentrare le loro attenzioni geopolitiche su altri scacchieri (Medio Oriente ed Europa orientale). 

Il decollo delle relazioni commerciali

Che Duterte stia avvicinando le Filippine a Pechino è evidente dall'andamento di alcuni dati statistici profondamente significativi. Ad esempio, se si osserva la percentuale dei turisti cinesi che hanno visitato il Paese del Sud-Est asiatico nell'ultimo decennio, salta subito agli occhi anche dell'osservatore meno attento la crescita esponenziale registrata a partire dall'elezione dell'ex sindaco di Duvao. Se nel 2015 il dato era fermo a 180.300 visitatori, già nel 2016 è balzato a 341.000 per poi crescere l'anno successivo fino a 454.500. Una tendenza che non solo si è confermata ma è ulteriormente progredita nell'anno in corso; fino allo scorso agosto i turisti cinesi nelle Filippine sono stati 645.100, quasi il doppio rispetto al numero già esaltante del 2016. A crescere a ritmi altrettanto elevati anche il numero dei lavoratori cinesi; nel 2010 erano poco più 10 mila, nel 2016 le autorità filippine hanno rilasciato 41.000 permessi, 13 mila in più rispetto al 2015. L'afflusso di lavoratori va di pari passo con l'aumento degli investimenti del Dragone nello Stato insulare. Come ha ricordato il ministro cinese degli Esteri, Wang Yi lo scorso marzo, nei primi sei mesi del 2018 c'è stato un ulteriore incremento del 5% dopo che l'anno precedente si era già registrato un balzo del 67%. Con la presidenza Duterte, la Cina sta diventando il primo partner commerciale delle Filippine, strappando il primato delle esportazioni al Giappone. L'ambasciatore di Pechino a Manila, Zhao Jianhua, ha dichiarato con orgoglio: “Sono certo che prima o poi la Cina sarà l'importatore numero uno dei prodotti filippini“. Parole che rendono bene l'idea della prospettiva rosea con cui la Repubblica Popolare guarda ai rapporti bilaterali con lo Stato insulare. 

La linea Duterte

L'armonizzazione delle relazioni sino-filippine va dunque attribuita principalmente alla politica estera inaugurata dall'amministrazione Duterte. Un nuovo “corso ideologico”, come lo ha definito lo stesso presidente, diretto a smarcarsi dalla tradizionale alleanza con Washington per poter rendere il Paese del Sud-Est asiatico maggiormente appetibile agli occhi di Pechino. Non a caso, il “castigatore” ha annunciato platealmente di non volere più truppe straniere sul suolo nazionale dichiarandosi pronto ad “emendare o abrogare gli accordi esecutivi“. Un riferimento palese all'”Enhanced Defence Cooperation Agreement” imposto da Obama all'allora governo Aquino e che consente all'esercito americano l'accesso a cinque basi militari. La messa in discussione di quest'accordo – rimasta finora solo una dichiarazione d'intenti – va interpretata come un ammiccamento a Pechino più che come una difesa dell'indipendenza filippina. D'altra parte, l'Edca fu firmato per garantire la presenza militare americana come argine all'espansionismo del Dragone nel Mar Cinese Meridionale. Un segnale recepito da Xi Jinping che ha capito di poter contare su un interlocutore nient'affatto ostile a Manila. Il governo cinese non è rimasto indifferente alla prospettiva di poter provare a strappare allo schieramento filoamericano un partner strategico come le Filippine e lo dimostra la promessa con cui Duterte è tornato a casa dopo la visita ufficiale in Cina nel 2016: 24 miliardi di dollari, di cui 15 in investimenti e 9 sotto forma di agevolazioni creditizie. Da quando l'ex sindaco di Duvao ha annunciato pomposamente la “separazione dagli Stati Uniti”, i due Paesi asiatici hanno firmato 40 documenti di cooperazione.

La disputa sulle isole del Mar Cinese Meridionale

Il canale privilegiato creatosi con il Dragone non è stato scalfito neppure dalle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale. La vicenda relativa ad alcune isole contese dell'arcipelago Spratly è stato l'ostacolo più serio emerso nel cammino di riavvicinamento sino-filippino. Infatti, nel luglio 2016 la Corte permanente di arbitrato dell'Aja ha accolto un ricorso presentato da Manila nel 2013 smorzando le rivendicazioni avanzate dalla Repubblica Popolare. Ma, al di là di qualche “sparata” del suo repertorio come la minaccia di “affettarli con un machete” pronunciata lo scorso agosto, Duterte ha adottato una linea prudente di fronte alla militarizzazione del Mar Cinese Meridionale e lo ha dimostrato dichiarando di non avere intenzione di chiedere l'applicazione del patto di reciproca difesa firmato nel 1951 con gli Usa nel caso di scoppio di un conflitto.

Il futuro del Pacifico

Il presidente “castigatore” non ha alcuna intenzione di deteriorare il rapporto costruito in questi due anni di mandato con Xi Jinping. L'amministrazione filippina, dunque, cerca di ritagliarsi un ruolo non secondario nel futuro del quadrante geopolitico del Pacifico. Meglio rompere l'alleanza con la potenza in declino o continuare a costruire – a costo di mandare giù qualche boccone amaro – un rapporto solido con quella in ascesa? A giudicare dalle parole entusiastiche (“E' un momento di svolta della nostra storia condivisa. Abbiamo aperto una nuova pagina e siamo pronti a scrivere un nuovo capitolo di apertura e cooperazione”) con cui ha accolto il primo presidente cinese a visitare le Filippine, sembrerebbe che Duterte abbia già compiuto la sua scelta.