L'urlo delle donne contro Boko Haram

Rivoluzione femminile in Cameroun. Per fronteggiare i ripetuti attacchi perpretrati dai militanti del gruppo jihadista secessionista Boko Haram nel nord del Paese, nove leader delle comunità locali, in accordo con le Nazioni Unite, hanno nominato 123 donne a ruoli decisionali per arginare le violenze del gruppo terroristico. Le comunità di Demsa, Tignere, Ngaoundere, Djerem, Banyo, Mokolo, Guider, Logone-Birni e Kousseri avranno, così, le loro paladine, pronte a garantire la giustizia in un'area molto fragile e venata dalle violenze.

Donne sempre più sole

La cerimonia di “investitura” è stata caldeggiata dal leader Mahamat Bahar Maruf, da sempre sensibile alle tematiche di genere volte al rispetto delle donne. In molte comunità locali del Cameroun, infatti, è difficile per le donne avere accesso diretto a posizioni di autorità. Talvolta questo è possibile soltanto con l'imprimatur dei mariti. Il modello al Paese è stato fornito dallo stato nigeriano di Borno, dove oltre un centinaio di donne lavorano come agenti di sicurezza contro le ripetute violenze pepetrate da Boko Haram. Quest'episodio non basta, tuttavia, per fare della Nigeria un Paese sensibile alla tematica. Nello stato la reale situazione delle donne coinvolte nella jihad sostenuta dai miliziani è assai peculiare. Dai dati presentati nel report stilato dall'International Crisis Group, un think tank belga, emerge una categoria che fatica a essere inclusa nel tessuto sociale. Le donne affiliate e Boko Haram spesso sono vittime di sevizie e violenze. Quando riescono a fuggire, però, non trovano accoglienza presso le loro comunità originarie. La maggior parte di loro, infatti, è ostracizzata soltanto per aver fatto parte di Boko Haram: vengono, cioè, percepite come fattori contaminanti e per molte di loro non resta che tornare tra i miliziani e rischiare di essere reclutate persino come kamikaze o spie. La ricerca rivela esiti raccapriccianti dell'isolamento: alcune madri sono costrette ad uccidere i propri figli che recano l'onta di essere nati da jihadisti o, nei casi più fortunati, a vivere con la prole recando lo stigma di colpevolezza per tutta la vita. Da ciò, l'impegno delle autorità locali a proteggere ed integrare le donne, che sono le prime vittime delle violenze. 

Vittime del terrorismo

Secondo i dati del rapporto stilato dall'istituto accademico statunitense Combating Terrorism Centre, Boko Haram s'è avvalso di 469 donne suicide per un totale di 240 incidenti tra giugno 2014 febbraio 2018 costati la vita ad almeno 1.259 persone, bomber escluse, e che hanno causato il ferimento di oltre 2.967 civili. Ma non sempre le donne sono state arruolate dai miliziani con metodi coercitivi. Intorno agli anni Duemila, infatti, il fondatore del gruppo, il predicatore sunnita Ustaz Mohammed Yusuf, avrebbe promosso l'inserimento di donne all'interno del gruppo per creare un più profondo senso di apparentenza e improntare una società basta sulla jihad così intesa. Poi, sotto la guida del leader Abubakar Shekau, che prese il posto di Yusuf alla sua morte nel luglio 2009, il movimento estremista ha inaugurato i rapimenti coatti di donne e ragazze, sottratte con la violenza dalle loro famiglie: nel solo biennio 2014-2015, si calcola che Boko Haram abbia rapito oltre duemile donne. Questo generò un cambiamento nella strategia: le donne non servivano più a rafforzare un'identità interna, ma il loro contributo era finalizzato a quello dell'attacco. La loro presenza, infatti, dava meno nell'occhio e le donne potevano accedere anche ad obiettivi prescelti dai miliziani. Sempre nel rapporto sopraccitato si calcola che, in soli sei anni (aprile 2011-giugno 2017) almeno 244 dei 434 attacchi suicidi di Boko Haram siano stati eseguiti da donne. La presenza di donne è scemata con la leadership di Al-Barnawi, figlio di Yusuf, che predilige l'arruolamento di uomini, anche se non è da escludere che in futuro le donne possano rimpolpare le file dei miliziani. 

Baby-kamikaze

La presenza delle donne nel gruppo ha generato un crescente aumento di bambini. I miliziani non hanno avuto remore nell'utilizzarli come attentatori, infrangendo tutti gli stereotipi demografici dei terroristi. Il rapporto presentato dall'Unicef lo scorso aprile traccia uno scenario complesso riguardo ai cosiddetti “baby-kamikaze”: i minori, infatti, sono difficilmente targettizabili e questo li rende versatili nel raggiungimento degli obiettivi che i miliziani vogliono colpire. I bambini e gli adolescenti sono, inoltre, scuscettibili alla manipolazione psicologica. Tra 134 attentatori coinvolti in attacchi dinamitardi, sono stati rilevati 53 adolescenti 28 bambini impiegati come kamikaze: in termini percentuali, su 238 attentati Boko Haram ha utilizzato per il 60,4% dei casi dei minori. Un dato inquitetante che offusca i contorni dello scenario jihadista dal Sahel al Corno d'Africa