La Corte di Strasburgo tira le orecchie agli 007 inglesi

Il Bar dello Sport continua ad essere l’epicentro di discussioni ogni giorno più dotte. Dopo aver disquisito per settimane del Ponte Morandi, molti avventori hanno messo da parte le lauree in ingegneria mai conseguite (anticipando il presidente della Commissione Istruzione del Senato secondo il quale – forte della sua terza media – “quello che c’è da sapere non si impara sui polverosi libri”) e hanno cominciato a discettare di intelligence.

Le nomine ai vertici dei Servizi stanno appassionando anche i più distratti, anche quelli che non si sono accorti che tra i designati “in pectore” c’è persino qualcuno che (almeno secondo il sempre ben informato Emiliano Fittipaldi dell’Espresso) vanta tra le proprie esperienze internazionali la partecipazione in misteriose holding lussemburghesi.

Mentre a sei mesi dall’esito elettorale ancora si rincorrono le voci sulla promozione di questo o di quello, la vasta platea degli 007 in pantofole non può perdersi una notizia fondamentale per chi vuole masticare certe cose.

Potrebbe sembrare un risultato calcistico ma Echr – Gchq 4 a 0 ha tutt’altro significato.

Mentre la sigla Cska evoca l’omonima squadra moscovita, gli acronimi precedenti meritano una traduzione. Chi ha vinto l’apparente derby è la European Court of Human Rights, ovvero il supremo tribunale continentale per i diritti umani. Dall’altra parte dell’immaginario campo “giocava” il Government Communications Headquarters, vale a dire la potentissima struttura britannica che – mamma di Echelon – ha storicamente il controllo dei sistemi di telecomunicazione del pianeta e l’orecchio poggiato su cavi ed etere per non perdersi nulla di quanto viene detto o trasmesso.

Il fischio di avvio della “partita” era stato quello del whistleblower Edward Snowden, che – tra tante scottanti questioni – aveva richiamato l’attenzione sul programma d’oltremanica mirato a spiare tutto quel che veniva veicolato con modalità analogiche e digitali.

Il primo tempo di questa sfida si era chiuso a dicembre 2014 con una sorta di nulla di fatto, perche l’Investigatory Powers Tribunal (organo giudiziario indipendente del Regno Unito) aveva sentenziato che il GCHQ non aveva violato alcuna norma della Convenzione Europea a tutela dei diritti umani e che anzi aveva svolto attività perfettamente compatibili con l’articolo 8 in materia di privacy e con il 10 dedicato alla libertà di espressione.

Una coalizione di 14 organismi (una specie di “irriducibili”, come gli ultras negli stadi) ha deciso di non arrendersi dinanzi ad un così deludente risultato. Amnesty International, Liberty, Big Brother Watch, Privacy International e altre compagini alla fine l’hanno spuntata.

A Strasburgo la Corte Europea ha riconosciuto che i metodi – tutt’altro che delicati – adoperati da Gchq per intercettare il traffico di dati online hanno trasgredito le più elementari regole di riservatezza e che non sono state date le benché minime garanzie di rispetto di alcun diritto fondamentale.

La Corte non ha messo in dubbio la legittimità del progetto avviato nel ciclopico centro di elaborazione dati di Cheltenham, riconoscendo l’encomiabile obiettivo di contrastare il terrorismo internazionale e altri gravissimi crimini, ma ha obiettato sul “come” gli specialisti dell’intelligence di Sua Maestà la Regina abbiano finora proceduto.

L’eccessiva discrezionalità nella definizione degli obiettivi da tener d’occhio e gli strumenti impiegati sono risultati debordanti rispetto anche la più elastica interpretazione delle norme vigenti.

Tra le varie azioni contestate c’è lo spionaggio sistematico dei giornalisti, di cui è stato monitorato ogni possibile contatto e di cui è stata tracciata meticolosamente la navigazione sul web minacciando gravemente non solo la privacy dei diretti interessati ma anche la libertà di stampa.