Voci dal campo: quando lo sport racconta la società

Il calcio (ma lo sport in generale) come lente d'ingrandimento sui tempi che cambiano. E sull'importanza, sempre maggiore, di un'informazione corretta. Interris.it ne ha parlato con Antonio Barillà, storica firma del giornalismo sportivo italiano

Sport società
A destra, il giornalista Antonio Barillà

Lo sport come chiave di lettura sociale. In fondo è sempre stato così, se non altro per la capacità intrinseca delle discipline sportive di unire le persone all’insegna di una passione. E, chiaramente, la crescita della copertura mediatica ha contribuito a inserire lo sport nelle maglie della società in modo continuo. Di fatto permanente per quel che riguarda il calcio, sganciato forse da quell’aura romantica ed eroica che gli si attribuiva in passato per lasciare il posto a un divismo figlio diretto della nostra epoca. Eppure, anche se diverso, magari più a portata di mano ma al contempo più distante, il calcio (e lo sport in generale) può essere una cartina di tornasole del modo di fare informazione. Perché il concetto di fondo non è cambiato: cercare di leggere i tempi attraverso i fatti.

E, dalla riemersione di lettere autografe di altre epoche, come quelle di Valentino Mazzola, può nascere un ragionamento a tutto tondo sull’importanza dell’informazione. Attuale e, forse, anche necessario. Interris.it ne ha parlato con Antonio Barillà, storica firma sportiva de La Stampa.

 

Antonio, le lettere autografe di Valentino Mazzola, appena pubblicate, ci collegano a un passato recente ma sempre più lontano nella testimonianza diretta. In quei testi emerge persino il lato umano di quello che è di fatto un mito… 
“La cosa bella è che, essendo lettere private indirizzate a un amico estraneo al mondo del calcio, sono in qualche modo pure. Nel senso che erano scritte senza nessun tipo di filtro. Questo ragazzo, conosciuto a vent’anni, quand’era su un cacciatorpediniere, aveva una fiducia unica, con lui diceva cose che magari pubblicamente non avrebbe detto, per diplomazia ma anche per una forma di rispetto verso i compagni. È bello perché lui si confida in tutto: dal punto di vista calcistico conosciamo dei retroscena di cui si era sempre parlato ma raccontati dalla sua voce. Dall’altra parte, le confidenze sulla persona, ad esempio sul matrimonio. Si è aperto. Attraverso queste lettere abbiamo potuto scoprire, dalla sua stessa voce, un personaggio”.

E il fatto di averlo potuto scoprire è dipeso dalla condivisione di un ricordo?
“Queste lettere non erano mai uscite e abbiamo avuto la possibilità di conoscerle grazie al figlio del corrispondente, che ha accettato di renderle pubbliche, in quanto non lo ritiene un ricordo privato di suo padre ma un patrimonio. Penso sia stato un regalo che lui ci ha fatto”.

È significativo parlare di lettere, inchiostro indelebile, in un contesto in cui la comunicazione è più frequente ma spesso più effimera. C’è il rischio che, in futuro, di queste testimonianze se ne avranno sempre meno?
“Queste sono lettere, spaccati intimi. Nel momento in cui ci confidiamo con un amico siamo di fatto noi sé stessi. È vero che i social mostrano molto ma noi vediamo solo quello che si sceglie di mostrare. Su queste piattaforme tutti tendono a mettere un’immagine più bella, apprezzabile dal punto di vista dell’estetica. Difficile che un social, un domani, tramandi una polemica, un dubbio, una tristezza. Forse potrebbero farlo un sms o addirittura un WhatsApp”.

L’immediatezza dell’informazione ha reso lo sport solo apparentemente più prossimo. In realtà, la distanza con il pubblico sembra sempre più marcata rispetto al passato. Stiamo davvero andando in questa direzione?
“Stiamo parlando di un calcio che non era solo romantico, come vogliamo tramandare. Come emerge da queste missive, anche allora c’erano offerte, ballavano soldi… Era però un calcio di vicinanza, i calciatori non erano così distanti dalla gente. Valentino Mazzola, come emerge dalle lettere, abitava al centro di Torino, andava la domenica a passeggiare sul Corso con il figlioletto… Oggi i calciatori sono eroi distanti, non sono prossimi. E io credo che in questo si sia perso molto. Perché il calcio è innanzitutto passione e un divo è prima di tutto modello. Invece li vediamo chiusi in una bolla, non sono più quelli che possiamo vivere e condividere nella quotidianità. Credo che, per questo, quello di prima fosse un calcio migliore”.

Vale anche per i giornalisti?
“Sì, abbiamo delle difficoltà di approccio che prima non esistevano. I calciatori, per dirne una, si intervistavano negli spogliatoi. Ma senza risalire all’epoca di Mazzola, Renato Zaccarelli, in una recente intervista, ha raccontato di come, dopo le partite, tornavano a casa a piedi, parlando con i tifosi. Questo la dice lunga”.

In effetti il rapporto delle società con i comunicatori è cambiato, più istituzionale e meno confidenziale: secondo te questo può influire anche nel rapporto tra cronista e lettore?
“È un cane che si morde la coda. I giornalisti, forse, sono stati tenuti più a distanza perché si vive meno il clima della squadra, con gli addetti stampa e le conferenze stereotipate per tutti. È anche vero, però, che prima chi era giornalista lo era realmente, era distinguibile. Oggi, invece, c’è un insieme di giornalisti, pseudo-giornalisti, predicatori che mescolano notizie, tradiscono fiducia. Io ne ho vissute molte di situazioni del genere in cui, a fronte di notizie che chi viveva una determinata squadra sapeva bene essere in un certo modo, erano diversamente urlate da persone estranee all’ambiente allo scopo di fare audience. Questo ha creato una problematica dalla quale ora è difficile uscire”.

La comunicazione “veloce” sembra essere prediletta rispetto alla carta stampata. Il giornalismo classico si sta allontanando dallo sport?
“Non credo. L’approfondimento rimane forte, sia sui giornali che sui loro siti. Un conto è la notizia veloce ma poi nessuno racconta più la partita. Sul giornale, il giorno dopo, approfondisci, dai un taglio, lavori su temi che, se affrontati da persone competenti, aiutano a capire qualcosa. Il problema più grave è chi si arroga il diritto di dare notizie veloci senza tuttavia averne le competenze. Di conseguenza, alcuni fenomeni come il calciomercato, diventano un boomerang: le persone hanno mille fonti e non sanno più distinguere quelle reali e quali siano semplicemente un servizio permanente effettivo finalizzato ai click”.

Eppure calcio e cronaca sono spesso entrati in contatto, richiedendo al giornalismo una valutazione seria dei fatti. Penso ad esempio alla tragica vicenda di Denis Bergamini. Può essere considerata un momento di passaggio?
“Purtroppo parliamo di un caso tragico in cui il calcio è sfondo. Penso che sia stato illuminante perché insegna che inseguire la verità con tenacia, in questo caso da parte della famiglia, porta a essere premiati, pur a fronte di tanto sacrificio. In secondo luogo, dimostra come ci siano verità che spesso ci vengono propinate come tali ma davanti alle quali il giornalista non può arrendersi. Il vero cronista deve indagare, cercare di capire meglio e sciogliere dubbi. Nel caso di Bergamini, la restituzione della verità è stata un sospiro di sollievo, non una sorpresa, perché alcuni dubbi erano evidenti dall’inizio. E hanno contribuito tanti giornalisti e tante persone della società civile alla ricerca della verità. Contribuire alla verità è un dovere del cronista. Tanti, oggi, non sono tali per formazione ma per improvvisazione”.

La vastità del web, forse, non sempre aiuta il lettore a discernere una fonte affidabile da una fallace. Quali strumenti si possono fornire in aiuto?
“Invito sempre a seguire il giornalismo vero ma non per la boria di chi appartiene a una realtà e vuol difenderla ma perché è l’unica garanzia di serietà. Il giornalista può sbagliare ma sempre in buona fede, senza improvvisare. Chi improvvisa, invece, può far male. Io vorrei che si arrivasse a un’informazione di qualità anche sui social per distinguere coloro che lo fanno seriamente, con limiti e bravure, da chi si improvvisa. Informare è una grande responsabilità, un dovere verso i lettori prima che un mestiere bello e affascinante”.

Un’occasione per ribadire che l’informazione è un servizio pubblico e la firma una garanzia per il lettore e per sé stessi…
“Sì. In molti casi, infatti, la deontologia viene saltata. Inoltre c’è questa caccia al consenso che porta spesso a urlare e distorcere. E io parlo di improvvisazione, non di siti grandi e piccoli. Il proliferare dell’informazione grazie al web, di per sé è una ricchezza. Vorrei però un maggiore controllo, una distinzione tra chi fa informazione e chi esprime un’opinione, perché sono cose diverse. Il lettore deve avere chiarezze, a volte si contribuisce, magari in buna fede, a veicolare della fake news per essersi fermati alle apparenze. Bisogna essere attenti alla qualità dell’informazione, a prescindere dal mezzo”.

A proposito di qualità, in Italia resta la problematica annosa degli impianti sportivi, tra il degrado di quelli storici e la rarità di quelli nuovi. Come si esce dal pantano?
“All’estero gli impianti di proprietà sono un tesoro diffuso e in Italia si contano sulle dita di una mano. E in molti casi appartengono a società particolarmente illuminate o a imprenditori. In Italia non abbiamo la cultura degli investimenti sui club che vadano al di là dei diritti televisivi e dei calciatori. Quando giriamo per l’Europa troviamo impianti che sono all’avanguardia e danno valore alla società cui appartengono. È infatti una fonte di ricavo importantissima. Non basta essere pronti a costruire in concomitanza con le grandi manifestazioni ma occorre avere impianti per avere delle strutture che aiutino, assieme alla cura dei settori giovanili, a costruire un modello calcio che sia competitivo a livello europeo. Non dobbiamo ricordarcene, però, solo quando ci capita di non fare due mondiali di fila”.