Scene da un viaggio in treno con un migrante

lavoro

Questa settimana non abbiamo scelto una lettera ma un episodio, apparentemente banale, cui ho assistito viaggiando su di un treno regionale, non più super affollato come mesi addietro, ma comodamente seduto e doverosamente mascherato, anche se a distanza di oltre due metri da altri viaggiatori.

Accade che un viaggiatore discute animatamente al telefono con un interlocutore a voce alta in lingua straniera per cui il contenuto del colloquio è incomprensibile per gli altri viaggiatori ma i toni paiono inequivocabili. Sopraggiunge il capotreno, non so se richiamato dalle voci o da qualche viaggiatore infastidito e si rivolge in maniera risoluta allo straniero, non solo invitandolo ad un tono più moderato ma redarguendolo per aver occupato più di un sedile con i propri voluminosi bagagli ed addirittura apprezzando negativamente il suo abbigliamento, effettivamente trasandato al limite dell’indecenza, come di fortuna gli oggetti che trasportava con sé.

Non corre dubbio che secondo un diffuso criterio di doveroso rispetto verso gli altri e verso i mezzi di trasporto è necessario avere un contegno accettabile nel vestire e nel comportarsi, mantenendosi all’interno di un condiviso criterio di decoro almeno minimo e certamente il viaggiatore lo travalicava fornendo un’immagine discutibile e turbando la quiete degli altri viaggiatori con le sue esternazioni, inutile dire amplificatesi alla vista del funzionario che gli contestava l’atteggiamento.

La vicenda sarebbe stata di scarso rilievo ma un particolare ha suscitato la mia riflessione che abbiamo scelto di divulgare: il funzionario, come suo dovere, ha chiesto all’incauto viaggiatore di mostrare il biglietto e, constatato che non era convalidato né aveva il biglietto per i bagagli che trasportava, lo ha costretto a scendere alla fermata frattanto sopraggiunta per obliterare e munirsi del biglietto per i bagagli e nel frattempo il treno è ripartito. Certamente il risultato ottenuto dallo scaltro funzionario è stato gradito ai viaggiatori disturbati dalle intemperanze del malcapitato ma mi sono trovato a riflettere sul diritto dello sventurato, evidentemente calpestato.

A rigore di stretta logica il comportamento non fa una piega: il biglietto va convalidato (anche se non se ne comprende il motivo posto che con le nuove disposizioni deve essere emesso poco prima della partenza del treno e con ridotta validità temporale, per cui sembra impossibile riutilizzarlo e dovrebbe essere la compagnia a regolare diversamente l’uso, in modo da non gravare sull’utente, ma su questo torneremo presto); anche i bagagli comportano il pagamento della tariffa dovuta.

Ma se quel viaggiatore fosse stato ben vestito e pacato nella sua conversazione avrebbe superato il controllo senza disagio, magari con il visto del controllore che avrebbe annullato il biglietto e l’invito a sistemare meglio i suoi bagagli, applicando istintivamente quella normale tolleranza che caratterizza i rapporti umani, prima ancora che civili. Ma la particolare condizione del malcapitato ha azzerato la tolleranza generando la reazione intransigente, in omaggio al diffuso principio che da tempo si è diffuso anche tra gli slogan politici. È questo il mondo che vogliamo? Chi ha sbagliato deve essere escluso? Chi non sa comportarsi deve essere allontanato? Chi disturba eluso?

Da due millenni nel mondo circola un pensiero del tutto opposto e, nonostante la capillare diffusione planetaria, e la sua apparente comprensione stenta ad essere adeguatamente applicato, specialmente quando a farne le spese siamo chiamati in prima persona: perché?

Sicuramente perché l’immigrazione clandestina che tanto disagio sta portando alla pacifica convivenza è frutto della tratta dei migranti, che ha sostituito quella degli schiavi con cui, pur nello splendore artistico dell’era elisabettiana, gli inglesi colonizzatori del nuovo mondo aprirono la strada al ripristino della antica schiavitù, atrofizzata dalla rivelazione cristiana, e si affianca alla tratta delle femmine, ancora in fulgido vigore nonostante le conquiste etiche e sociali sul ruolo della donna; in entrambi i casi l’assenza di un efficace contrasto a tale disumano sfruttamento degli individui determina la convergenza del contrasto sull’effetto piuttosto che sulla causa, in forza dell’umano istinto di scegliere la via più facile e di criticare piuttosto che fare.

Come dice il nostro direttore nel suo intervento su Avvenire che ho potuto leggere in conclusione di queste mie note, è la mentalità che va cambiata, è l’approccio verso il prossimo che va rivisto in funzione della consapevolezza che l’altro appartiene allo stesso genere umano di cui ci fregiamo e che nulla ci consente di ergerci ad essere superiori degli altri od a funzioni che non ci competono ma che dobbiamo lucidamente orientare i nostri interventi a favore di chi ha effettivo bisogno, dando voce anche agli ultimi, e muoverci contro gli effettivi artefici dei cattivi affari ed ai sostenitori delle loro nefande cause.

Non è affatto buonismo, pur se la pietà cristiana è una delle virtù donate all’uomo dallo Spirito Santo, ma invito a rivolgere le proprie critiche e le proprie azioni ristabilizzatrici verso gli effettivi colpevoli e non verso le vittime delle altrui malefatte.

Negli anni sessanta un giovane Bob Dylan cantava The lonesome death of Hattie Carroll in cui raccontava la storia di una povera cameriera con figli a carico che veniva uccisa senza motivo dal figlio del padrone dove lavorava e invitava a non scandalizzarsi né per la morte innocente, né per la crudeltà dell’assassino ma per la sentenza che condannava il giovane potente a … sei mesi di carcere. Come a dire non è la cattiva azione che crea il problema ma il consenso peloso che si genera intorno ad essa.