L’incubo del coronavirus: la storia di chi ha visto la morte in faccia

Pietro Pippa è uno sportivo signore di Bergamo. Il Coronavirus lo porta in una sala di terapia intensiva per 25 giorni

Non è assolutamente un’influenza normale. Io sono stato malissimo e ancora oggi lotto per ritornare in piena salute”, queste le poche parole che riesce a scandire Pietro Pippa al telefono. Un signore cinquantenne di Bergamo che nel marzo scorso ha conosciuto da vicino la morte. Il Coronavirus lo ha costretto al coma farmacologico e alla terapia intensiva. Non riesce ancora a parlare bene: la tracheotomia gli ha spostato la corda vocale di sinistra. Al telefono invita a parlare la moglie che ripercorre con Interris.it quei giorni di tempesta, di dolore e di estrema difficoltà.

Suo marito ha avuto il Coronavirus, cosa è successo?
“E’ stata una tragedia. Il 13 marzo ha iniziato a non stare bene. Ha avuto le prime sintomatologie come per esempio qualche riga di febbre in più. C’è da considerare che qui eravamo tutti contagiati. Viviamo a pochi chilometri da Bergamo”.

Avete fatto riferimento al medico di base?
“Si, ma il tutto avveniva per via telefonica. Si è registrata una forte carenza di medici di base a causa dei contagi. Non si poteva nemmeno andare in ospedale. Per mio marito Pietro, abbiamo deciso di chiamare il numero che la Regione Lombardia aveva messo a disposizione per gli eventuali casi di Covid-19. Abbiamo spiegato che Pietro presentava le sintomatologie come febbre e una particolare tosse che non gli permetteva di respirare. Ci hanno respinto che si trattava di ansia o panico per il Coronavirus. In realtà, si trattava di un polmone che stava smettendo di funzionare”.

Vi siete perciò mossi autonomamente?
“Abbiamo preso la decisione di andare al pronto soccorso anche se ci consigliavano di restare a casa. Una volta lì, lo hanno immediatamente ricoverato. Era urgente. Gli hanno fornito dell’ossigeno in pneumologia: sembrava che pian piano stesse migliorando. Invece, la notte tra l’uno e il due di aprile il suo polmone è collassato. È andato in terapia intensiva, intubato”.

Per quanto tempo?
“Vi è rimasto per 25 giorni. Nell’intubarlo, il catetere centrale venoso è andato a disturbare la vena che va alla carotide. Ha, perciò, subito anche un intervento vascolare. Un intervento che ha causato un ematoma di quindici centimetri che comprimeva la trachea. I medici hanno dovuto attendere che l’ematoma si riducesse fino ai quattro centimetri per procedere con la tracheotomia. Lui è stato in coma per 25 giorni”.

Voi familiari come avete vissuto questo momento?
“L’abbiamo vissuto molto male. Mi è letteralmente caduto il mondo addosso. L’ospedale Papa Giovanni ha immediatamente attivato anche un presidio di sostegno psicologico per le famiglie dei pazienti. Gli psicologi ci chiamavano a casa per aiutarci. Perché la cosa davvero orribile era che Pietro era lì e noi dovevamo restare a casa. Non abbiamo potuto vederlo per più di due mesi. Come noi tutti gli altri”.

Dopo la terapia intensiva cosa è accaduto?
“Dopo un intero mese intubato, Pietro è stato trasferito in pneumologia perché finalmente era in grado di respirare autonomamente seppur con fatica. Ricominciava a vivere. In quel momento, non potevamo ancora incontrarci ma ci vedevamo dal vetro della finestra. Ci salutavamo con le mani. Dopo i due tamponi negativi ha potuto cominciare la terapia specifica. E abbiamo potuto riabbracciarci”.

Riesce a descrivere l’emozione nel rivedervi?
“Ci siamo abbracciati forte. Io non capivo più niente dall’estrema gioia di vederlo di nuovo vivo. Mi viene da piangere ancora adesso. Mio marito era uno sportivo che andava a mille all’ora e poi vederlo in un letto con molti tubi che lo tengono in vita. Qui, a Bergamo, la morte l’abbiamo toccata con mano e guardata dritta in viso”.

Secondo lei c’è stato qualche problema nella gestione dei contagi?
“Io ritengo che la Regione Lombardia non sia stata in grado di gestire questo grande problema. Ancora oggi, la Regione non ha chiamato me e mia figlia per un test o per un tampone. L’abbiamo dovuto fare di tasca nostra. Questa cosa è vergognosa”.

C’è che ritiene il Coronavirus poco più di un’influenza…
“Queste cose non posso proprio sentirle. C’è chi si è contagiato in forma lieve. Nel nostro condominio più della metà delle persone aveva il virus. Abbiamo visto tutti le immagini che provenivano dalle strade di Bergamo. Noi quei giorni sentivamo solo un silenzio interrotto dalle urla delle sirene delle ambulanze e delle campane che suonavano a morto. La sensazione era quella di estrema paura, terrore. Gli ospedali sono stati accoglienti e il personale, dei veri angeli, hanno gestito la cosa nel migliore dei modi”.

Ora le cose sono cambiate, lei riscontra un comportamento di monitoraggio adeguato?
“La popolazione è stata ed è coesa nell’affrontare questo problema. Il nostro sindaco e il nostro comune hanno fatto di tutto. In primis non si sono lasciate sole le famiglie meno abbienti in difficoltà. Ma c’è una responsabilità. Basti pensare che l’ospedale degli alpini lo hanno costruito in quindici giorni con l’aiuto dei muratori bergamaschi. Se attendevamo la Regione Lombardia chissà cosa sarebbe accaduto”.