“La mia schiavitù nei lager libici”

Appena arrivati in Libia, i banditi hanno preso me e mio figlio, ci hanno infilato un cappuccio in testa e ci hanno portato in una prigione dove c'erano tantissime altre persone ammassate come bestie. Dovevamo stare sempre seduti, non potevamo alzarci mai, neanche per un minuto. Per questo ho subito dei gravi danni alle gambe. Tutte le mattine prendevano mio figlio, ma anche altri bambini, li tiravano fuori dalle celle per picchiarli e poi li ributtavano dentro. Non so di preciso quanto tempo sia passato, ma credo di essere rimasta in quella prigione per più di tre mesi“. E' la drammatica testimonianza di Joy, giovane mamma della Costa D'Avorio che ha deciso di lasciare il suo Paese perché “c'era la guerra e non si poteva lavorare”. 

La povertà estrema e la decisione di fuggire

La Costa D'Avorio vanta una delle economie più prospere del continente africano, basata principalmente sull'esportazione delle materie prime. Il mercato locale dipende soprattutto dal settore agricolo. Per migliorare le condizioni del Paese, il presidente Ouattara ha investito in strutture, ma sta affrontando crescenti tensioni sociali per via delle continue proteste da parte dei lavoratori, alle quali si aggiungono numerosi ammutinamenti militari che ricordano gli anni della guerra civile. “La vita è sempre stata difficile. Prima c'era la guerra, poi i militari hanno iniziato le loro scorribande: picchiavano e sparavano alle persone per strada, non si poteva lavorare – ha raccontato Joy ad In Terris -. Poi ci sono stati molti problemi a causa della grande malattia (Ebola, ndr) che ha portato alla morte molte persone. Abbiamo vissuto nella paura per molti anni. La vita era diventata impossibile”. Joy decide quindi di partire nella speranza di andare incontro a un futuro migliore. Insieme al figlio di appena dieci anni, sale su un autobus e, dopo aver attraversato il Burkina Faso, Niger e Algeria, arriva in Libia dove viene trasferita in uno centro di detenzione illegale di Tripoli. “Non ricordo molto bene quel periodo, ma credo che il viaggio sia durato una decina di giorni, sono arrivata in Libia nel novembre 2016″. 

L'inferno dei lager

Tre mesi passati insieme ad altre cento persone, ammassati in un unico stanzone. Una sola porta chiusa a chiave da un lucchetto. I giorni che scorrevano lenti, tutti uguali, scanditi dalla paura di non poter essere mai più libera. “Non sapevo cosa sarebbe accaduto, cosa ne avrebbero fatto di me e di mio figlio – spiega -. Molti di questi centri sono illegali, gestiti dai trafficanti. Lì non entrano né le organizzazioni internazionali né i medici. Se stai molto male sei destinato a morire. Nessuno ci hai mai detto quanto tempo saremmo dovuti rimanere lì dentro. Ci trattavano peggio degli animali. Nessuno veniva ad aiutarci“. Veri e propri lager dove le persone vengono picchiate, seviziate e lasciate morire di fame o di malattie e le donne sono spesso vittime di abusi sessuali. “Io non sono stata violentata perché mi dicevano che ero sporca – dice – ma ogni giorno, prendevano le ragazze che volevano, le violentavano e poi le ributtavano dentro la stanza, come se fossero un vecchio paio di scarpe da buttare”. 

Il pagamento del riscatto e il viaggio in barcone

Durante i mesi passati nel centro di detenzione, Joy viene costretta ai lavori forzati per pagare la sua liberazione e quella del figlio. “Hanno preso me e mio figlio, eravamo molto spaventati perché non capivamo cosa stesse accadendo. Ci hanno spostato in un altro stanzone, senza sbarre. Anche qui c'erano tante persone tutte ammassate. Ogni tanto ci portavano del cibo e dell'acqua, ma non tutti i giorni. Poi, non so di preciso quanto tempo era passato, ci hanno detto che la barca era arrivata. Ci hanno svegliato in piena notte e al buio siamo arrivati alla spiaggia dove ad aspettarci c'era un barcone malconcio. Ci hanno fatto salire e abbiamo iniziato il viaggio. Abbiamo passato una notte intera in mare, con l'acqua che entrava da tutte le parti. Poi, per fortuna, una grande nave ci ha salvato. Era settembre 2017″. 

La vita in Italia

Dopo un mese passato in ospedale a causa del problema alle gambe, Joy è stata accolta, insieme a suo figlio, in una struttura per rifugiati dell'Associazione Pace In Terra Onlus. Nei giorni scorsi Joy, ha avuto l'opportunità di incontrare il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti. Rispondendo all'invito del responsabile della struttura, don Aldo Buonaiuto, l'arcivescovo di Perugia e Città della Pieve, ha incontrato i rifugiati che vivono nella casa di accoglienza. Joy, dopo essere stata abbracciata dal cardinale gli ha raccontato la sua storia spiegando che è “scappata da una situazione difficile dal mio Paese e mi sono trovata in una situazione più brutta, ma ora sono in salvo. Non ho più paura di malattie, aggressioni e banditi. Finalmente ho trovato un posto sicuro per me e mio figlio – spiega Joy -. Non posso tornare indietro, non riuscirei a sopravvivere a tutta quella cattiveria e violenza, soprattutto ora che le mie gambe non funzionano più bene. Significherebbe mettere in pericolo non solo la mia vita, ma soprattutto quella di mio figlio“. 

La giornata internazionale per l'abolizione della schiavitù

Nonostante siano passati quasi 150 anni da quando la Camera degli Stati Uniti ha vietato il commercio di esseri umani, la schiavitù esiste ancora. Nel mondo sono 40.3 milioni i cosiddetti schiavi moderni, ovvero circa cinque persone ogni 1000. Per combattere questa piaga sociale il 2 dicembre si celebra la giornata internazionale per l'abolizione della schiavitù. E' stata istituita dalle Nazioni Unite e ricorda la data in cui l'Assemblea generale approvò la convenzione dell'Onu per l'eliminazione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione, avvenuta il 2 dicembre 1949. Lavori forzati, tratta di esseri umani, matrimoni forzati, servitù domestica, sfruttamento sessuale o per debiti: sono queste le schiavitù moderne che affliggono tutti i Paesi. In questo quadro si inserisce anche l'Italia con le sue 129.600 persone afflitte da questa piaga, dietro solo a Polonia e Turchia. Questi sono i dati resi noti nel 2016 nell'Indice Globale della Schiavitù redatto dall'organizzazione non governativa Walk Free Foundation, che ha analizzato l'incidenza di schiavitù e tratta in 167 Paesi. Il 65% delle vittime di tratta proviene dall’Europa orientale (Romania, Slovacchia, Lituania e Bulgaria). Fuori dal Vecchio Continente i Paesi più interessati dal fenomeno sono Nigeria, Cina e Brasile.