Carceri, un modello da superare

Carceri

Le persone recluse sono costrette a vivere in condizioni “inumane e degradanti”. Per questo le carceri italiane sono state sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, come ricordato anche nel messaggio alle Camere inviato nel 2013 dall'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Per cercare d'invertire la tendenza il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha dato vita nel 2015 agli Stati Generali dell'esecuzione penale da cui ha preso le mosse la riforma dell'Ordinamento penitenziario.

I tre decreti 

Lo scorso 22 febbraio il Consiglio dei ministri aveva approvato 3 dei 18 decreti attuativi della riforma, quelli su lavoro, giustizia minorile e giustizia riparativa, con l'obiettivo di ridurre il tasso di recidiva. Nella stessa seduta, però, è stato rinviato al successivo Cdm l'atteso via libera al decreto complessivo che ridisegnerebbe l'ordinamento penitenziario.

Nell'occasione, il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, sottolineando che si tratta di “un lavoro in progress con l'obiettivo che il nostro sistema carcerario contribuisca a ridurre notevolmente il tasso di recidiva da parte di chi è condannato”, auspicava anche una rapida conclusione dell'iter legislativo. In Terris ne ha parlato con Giorgio Pieri, responsabile nazionale del servizio Cec, “Comunità educante con i carcerati“, messo a punto dalla Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23) di cui è membro.

Come giudica l'approvazione dei tre nuovi decreti legislativi da parte del CdM dello scorso 22 febbraio?

“Sono 42 anni che attendiamo la riforma del sistema penitenziario, fermo al 1975. I 3 decreti approvati dal Consiglio dei Ministri lo scorso 22 febbraio sono certamente un piccolo passo avanti, ma il vero grande tema della riforma penitenziaria è tutta da attendere. La riforma darebbe una visione diversa di quella che è la pena”.

In che senso?

“Nel senso che la pena potrebbe essere espiata anche all’esterno del carcere, attivando tutta una serie di strumenti come il potenziamento degli uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe) o l'utilizzo, permesso dall'art. 14, dell'affidamento in strutture apposite e degli arresti domiciliari. Inoltre, lo sviluppo di strutture pubbliche e private convenzionate potrebbero dare alloggio a persone che ad oggi sono in carcere semplicemente perché non hanno una casa dove poter fare i domiciliari”.

Quali le conseguenze?

“Nell'immediato, la prima conseguenza sarebbe di deflazionare il carcere, in cronico sovrannumero di detenuti. Inoltre, si darebbe linfa vitale a quelle comunità che – come la Comunità Papa Giovanni – accolgono i detenuti gratuitamente”.

Quanto costa allo Stato l'accoglienza dei detenuti?

“Oggi l'Apg23 ha circa 300 tra detenuti ed ex detenuti a costo zero per l'erario. Per tale motivo agli Stati Generali noi abbiamo chiesto che venga data una retta pro capite, che ci siano forme di accreditamento (quindi un riconoscimento istituzionale delle realtà accoglienti in Italia) e una politica che vada non più verso una giustizia vendicativa ma verso una giustizia educativa”.

In cifre, quanto chiedete?

“Secondo uno studio recente fatto dalle varie associazioni che accolgono, abbiamo visto che già da domani, se ci fosse una retta di 35 euro al giorno, si aprirebbero 10 mila posti disponibili all’accoglienza. La riforma darebbe la possibilità di accogliere i detenuti e di fare un percorso interiore di rinascita”.

Ha degli esempi concreti?

“Sì. Un ragazzo accolto presso casa mia aveva la mamma psichiatrica che lo picchiava molto e, appena nato, l’aveva anche gettato in un bidone. Ciononostante, il bimbo era stato lasciato in quella famiglia, continuando negli anni a prendere botte su botte. Cresciuto, è andato a vivere in strada e ha iniziato a delinquere. Oggi ha 35 anni e si è già fatto 10 anni di carcere. A una persona che ha già vissuto tutto questo, una parte della politica direbbe: 'Ributtalo in carcere e getta via la chiave'. Ma adesso che sta in comunità, credo e spero che possa spezzare il circolo di violenza che ha vissuto, perché il male si combatte solo con il bene, con risposte positive. La riforma del sistema carcerario a mio avviso lo permetterebbe”.

Qual è a suo avviso la problematica principale delle carceri italiane?

“Le carceri sono strutture obsolete perché non rispondono al bisogno dell’uomo che sbaglia: andrebbero usate soltanto per casi estremi e fornire le risorse in modo che i carcerati possano espiare la pena all'esterno, in modo utile e intelligente. Utile per l’abbassamento della recidiva, intelligente perché dobbiamo rispondere al bisogno delle persone”. 

Questo porterebbe un beneficio per la società?

“Certamente sì. La popolazione carceraria si potrebbe già da subito ridurre del 50-60% perché molte delle persone che finiscono dietro le sbarre, sono povere e senza risorse esterne. E' poi necessario il coinvolgimento della comunità esterna: diceva don Oreste che lo sbaglio di uno è lo sbaglio di tutti, e che per recuperare uno ci vuole il coinvolgimento di tutti”.

Non è possibile salvarsi da soli?

“Non in questo contesto. E’ impensabile che un uomo, quando esce dal carcere, si recuperi da solo perché noi di fatto, mettendolo in carcere, gli tagliamo tutti i contatti con il mondo esterno. Finita la detenzione, la comunità non lo riconosce più trattandolo come un elemento estraneo: esce con un sacco nero in mano, con tanti debiti, con la rottura degli affetti e con molta più rabbia di prima. Questo sistema, così come è concepito oggi, non può che produrre recidive alte”.

Qual è il tasso di recidiva?

“La recidiva di quelli che sono in carcere si attesta sul 60-65%, mentre quelli che sono in comunità si abbassa intorno al 15%. Praticamente, ogni giorno escono in Italia 150 ex detenuti. Di questi, per certo in 110 torneranno a delinquere con reati con cui sono entrati o anche più gravi. Di fronte a un dato così allarmante, non possiamo dire “aumentiamo le prigioni”: infatti, su 10 persone che entrano, 6 hanno già fatto esperienza di carcere: quindi è un sistema che si automantiene”.

Lo stesso discorso vale per i minorenni?

“Per i minorenni in carcere sì, la recidiva è sempre molto alta. Ma il sistema minorile in Italia funziona. Abbiamo 500 minori in carcere e oltre 2000 fuori dal carcere. I costi di quelli che sono in carcere sono 10 volte maggiori di quelli che sono in comunità. La recidiva di quelli che sono in carcere è al 60-65%, mentre quelli che sono in comunità si abbassa intorno al 10-15%. Quindi, il sistema è buono ma va sostenuto e potenziato nella direzione già esistente”.

Quali soluzioni per i soggetti tossicodipendenti?

“Andrebbero obbligatoriamente mandati nelle comunità terapeutiche, non in prigione. Conosco tantissime persone in carcere che sono dipendenti dal metadone, psicofarmaci, che fanno uso di alcool e droghe. Noi dobbiamo credere che le comunità possano risolvere integralmente il problema della tossicodipendenza. I 20mila detenuti tossicodipendenti attualmente in carcere, dovrebbero andare tutti obbligatoriamente nelle comunità di recupero; solo chi non volesse curarsi dovrebbe tornare in carcere. Questo sistema nel tempo sarebbe un grande risparmio economico per lo Stato e un grande vantaggio per la società perchè significherebbe recuperare migliaia di ragazzi e ragazze”.

Come si pone l'Associazione nei confronti degli ergastolani?

“L'ergastolo ostativo, vale a dire che nega al detenuto ogni beneficio penitenziario, è una vergogna inammissibile. Ci sono attualmente oltre 1500 detenuti che nel foglio di detenzione hanno scritto 'fine pena: mai'. Questo è un abominio, condannato anche da Papa Francesco, perchè l'ergastolo di fatto è una pena di morte mascherata”.

Quali sono le vostre proposte?

“Un esempio che noi come Apg23 seguiamo da anni è quello Apac, l’Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati. A Minas Gerais, Stato del Brasile situato nella regione geografica del Sudeste, la cui capitale è la città di Belo Horizonte, vivono 200 detenuti seguiti da soli 4 funzionari statali, per di più tutti disarmati, che presiedono l’istituto governato con il forte coinvolgimento del detenuto e dalla comunità esterna. I costi si abbassano a un quarto e la recidiva passa dall’80% al 15%. I risultati sono stati così positivi che lo stato di Minas Gerais sta chiudendo le carceri tradizionali e ha già aperto altre 52 strutture. Nel mondo ce ne sono 150. La Papa Giovanni ha importato il metodo dal 2008 e siamo stati riconosciuti dall’ente Apac come primi in Italia e in Europa. Tale metodo è stato proposto anche al Governo. Noi crediamo che questa riforma faciliterà lo sviluppo del Cec, la Comunità Educante con i Carcerati, che non è altro che l’integrazione del metodo Apac con quello che è il carisma della Apg23. Le soluzioni ci sono, ci vuole la volontà politica”.