Ricci (INVALSI): “Per la scuola italiana servono idee costruttive, moderne ed empiricamente praticabili”

L’intervista di Interris.it al presidente dell’INVALSI Roberto Ricci sul problema del fenomeno della dispersione scolastica

La dispersione scolastica è una doppia emergenza per il nostro Paese, tra quella cosiddetta esplicita – cioè l’abbandono degli studi – e quella implicita, terminare il percorso di istruzione senza un tasso di competenze adeguato, a cui si aggiunge la diminuzione del 10% della popolazione studentesca scolastica nell’arco di un decennio. Secondo l’Ufficio statistico dell’Unione europea (Eurostat), al 2020, la dispersione scolastica esplicita in Italia è al 13,1%, centrando e migliorando così l’obiettivo nazionale di scendere dal 17,8% al 16% ma restando sopra la soglia europea del 10%. Riguardo quella implicita, l’ente di ricerca italiano INVALSI nel 2021 la registrava al 9,5%. Questo mentre, negli ultimi dieci anni, gli alunni e gli studenti sono scesi da circa 8,9 a 8 milioni, con un calo di oltre 500mila allievi e allieve nella scuola statale, secondo Tuttoscuola. Per comprendere meglio la portata e gli effetti di questi fenomeni, Interris.it ha intervistato il presidente di INVALSI Roberto Ricci.

L’intervista

Quali spiegazioni possiamo dare a questa diminuzione, dopo inoltre due anni di pandemia?

“La ragione principale risiede nel calo demografico. Quando INVALSI ha iniziato le rilevazioni le leve scolastiche erano di 650mila studenti mentre se prendiamo la coorte della seconda primaria dello scorso anno scolastico erano oltre 400mila, cioè circa 200mila in meno. Si stima che nei prossimi anni perderemo un milione di studenti perché le leve scolastiche che si stanno affacciando ora sono sempre più esigue. C’è però una scarsa contezza degli effetti del calo demografico, a livello generale e non solo scolastico”.

Nel suo dossier “La scuola colabrodo”, risalente al 2018, Tuttoscuola calcola che dal 1995 al 2018 la dispersione scolastica è costata oltre 50 miliardi di euro. Di quanti fondi avrebbe bisogno la scuola italiana per contrastare questo fenomeno e soprattutto dove andrebbero investiti – alla luce anche della pandemia di Covid e del Piano nazionale di ripresa e resilienza?

“In realtà con il Piano nazionale di ripresa e resilienza le risorse destinate all’istruzione vanno a coprire le esigenze della scuola, almeno per i prossimi quattro/cinque anni. Semmai, il problema maggiore da affrontare, nei prossimi mesi e anni, come scuola e come sistema Paese è quello di avere idee costruttive, moderne, concrete ed empiricamente praticabili. Ogni studente costa al contribuente 7.500 euro all’anno, secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato; a questa cifra vanno poi aggiunti i costi indiretti che una popolazione con un minore tasso di istruzione ha sulle finanze pubbliche in termini di conseguenze sociali, come può essere l’impatto sulla salute. Secondo alcuni studi effettuati soprattutto negli Stati Uniti, un laureato ha una vita mediamente più lunga di due anni rispetto a chi ha un più basso tasso di istruzione. Le indicazioni, a livello europeo e nazionale, di allocazione dei fondi vanno nella direzione giusta, vale a dire investire nelle competenze di base degli studenti, seguirli e accompagnarli anche singolarmente, per riparare ad esempio i danni che possono derivare da un calo di motivazione, di coinvolgimento che gli studenti accumulano nel tempo. Non si tratta di mettere in campo azioni di tipo assistenziale, che siano dei palliativi ma che siano di supporto e possano avere un effetto moltiplicatore per il futuro. Ancora oggi, nel nostro sistema scolastico ci sono due momenti, potremmo dire di “cesura”, nel passaggio dalla scuola primaria  alla scuola secondaria di primo grado e poi alla scuola secondaria di secondo grado durante i quali gli studenti sono un po’ lasciati a loro stessi: intervenire durante questi passaggi non vuol dire mettere in atto misure assistenziali ma recuperare coloro  che, in questi salti, purtroppo cadono nel ‘fossato’”.

Mentre i licei “tengono”, in termini di dispersione scolastica esplicita, va peggio agli istituti tecnici e professionali. Dove affonda le radici questa disparità, tra l’altro quando il mondo del lavoro sembra aver bisogno di persone con una formazione tecnica?

“A livello nazionale, sul tema dell’istruzione liceale, tecnica e professionale si applicano delle categorie interpretative che non aiutano più a spiegare il fenomeno. La differenza principale è dovuta a una sorta di processo di ‘autoselezione’ fatto dagli stessi studenti e studentesse. In precedenza, quando il Paese aveva un diverso tessuto industriale e produttivo, l’istruzione tecnica e professionale ha costituito una scelta comunque forte. Per comprendere questa situazione si dovrebbe riconoscere che nella popolazione scolastica ci sono delle differenze. Nel nostro Paese, seguendo alcune visioni culturali, si è voluto garantire a chi frequenta le scuole superiori tecniche e professionali contenuti generali modulati dal liceo, a scapito però delle discipline più professionalizzanti. Nel modello tedesco, invece, dove è presente una forte istruzione tecnico-professionale, in momenti diversi del percorso scolastico, a seconda della Regione, si impongono dall’esterno criteri di indirizzamento degli studenti. Si tratta di decidere quale visione di istruzione si vuole adottare e a questa applicare misure coerenti e congruenti con quel percorso”.

Un altro problema è quello della dispersione scolastica implicita, cioè la carenza nelle competenze di base. Che trend emerge dalle rilevazioni Invalsi degli ultimi anni, pur tenendo conto che nel 2020 non si sono svolte in nessuna classe e che nel 2021 non sono state fatte nelle classi seconde della secondaria superiore?

“Si tratta di un fenomeno grave. La scelta dell’aggettivo ‘implicita’ ci parla di un fenomeno serio e profondo al di fuori della nostra percezione e che, con le prove INVALSI, siamo in grado di misurare solo dal 2019. La pandemia non ha certo aiutato, tanto che un calo delle competenze si è registrato nel periodo in cui non è stato possibile frequentare la scuola in presenza. Le rilevazioni del 2022 sono andate leggermente meglio rispetto a quelle del 2021, ma resta comunque il fatto che circa un diplomato su dieci si trova è in questa condizione. Il problema si aggrava con riferimento alle competenze scientifiche, un fenomeno che non riguarda solo l’Italia ma che da noi si rivela piuttosto più serio. Nel nostro Paese abbiamo un problema di apprendimento della matematica, e a seguire poi le altre scienze, a partire fin dalla scuola primaria. Già oggi si fa fatica a trovare insegnanti di matematica perché i laureati in matematica non coprono nemmeno un decimo del corpo docente necessario. Si tratta di un problema che richiede una presa di coscienza culturale generale e che impone di considerare pragmaticamente la possibilità di reclutare docenti di matematica che provengono anche da altri percorsi di studio scientifici”.

Il tema delle bocciature divide tra chi le considera ancora un efficace sprone per invogliare gli studenti e le studentesse a studiare per superare l’anno e chi propone di superarle con la personalizzazione dei piani di studio, fissando per ciascuno e ciascuna obiettivi formativi definiti materia per materia sulla base delle loro potenzialità. Qual è il suo parere a riguardo e come si potrebbe eventualmente, secondo lei, rinnovare la “vecchia” concezione della bocciatura?

“Bisogna scegliere che tipo di modello di scuola si vuole perseguire. La bocciatura è funzionale a un modello in cui la pietra angolare è costituita dall’organizzazione per classi in cui il focus è centrato sul ritmo di apprendimento della classe: chi non è in grado di sostenerlo non può più rimanere in quella classe. Questo modello porta con sé tassi di espulsione dalla scuola molto alti. Se l’intera società è organizzata intorno a un modello di scuola di questo genere, bisogna essere consapevoli che certamente può funzionare ma comporta è un tasso di espulsione che si aggira intorno al 40-45% delle leve scolastiche. Se invece il nostro scopo è cercare di avere una popolazione il più possibile istruita e che termini il percorso di studi, allora la bocciatura non risponde all’obiettivo. Infatti, i dati ci dicono che chi accumula almeno una bocciatura, rimane sempre, almeno fino alla fine del percorso scolastico, più indietro rispetto a chi non è mai stato bocciato. La bocciatura è uno strumento che risponde alla scelta di un modello di scuola. Si tratta di capire quale modello si vuole attuare. Tenuto conto che non esiste un modello che non abbia anche degli ‘effetti collaterali’ si tratta di una scelta che spetta alla politica”.

La didattica digitale integrata e la didattica a distanza, quest’ultima importante risposta alla difficile situazione dovuta alla pandemia, possono inoltre essere, passata l’emergenza, strumenti idonei a raggiungere anche fuori dall’aula chi è a rischio abbandono/dispersione implicita?

“Credo che alla dad andrebbe dedicata un monumento di ringraziamento perché ha risolto un problema di assenza di didattica durante il periodo del lockdown. È stato uno strumento emergenziale per tutto il periodo in cui si è stati in casa senza poter frequentare la scuola. La dad e la didattica digitale non possono sostituire quella in presenza, soprattutto perché parliamo di giovani in formazione, anche per tutta una serie di aspetti fondamentali come la socialità, l’empatia, la relazione. Come attività di supporto possono rappresentare uno strumento potentissimo di integrazione, personalizzazione e di incremento magari per studenti che vivono lontani dagli istituti o in luoghi remoti”.

In conclusione, come rinvigorire la funzione sociale della scuola e la sua dimensione relazionale, anche a seguito del periodo particolarmente duro, anche a livello umano, della pandemia?

“Occorre una riconsiderazione del ruolo della scuola e degli insegnanti, nel rispetto dell’esercizio di quella funzione che si acquista con una seria attività quotidiana. Serve uno slancio comune da parte di tutti, in questo senso, INVALSI cerca di contribuire fornendo dati attendibili, seri, utili a comprendere dove è necessario intervenire per migliorare e rafforzare situazioni di fragilità”.