Lettere da un carcere durante il lockdown: testimonianza di una volontaria

L’intervista a Ida Matrone, volontaria nel carcere di Bollate e autrice del libro “Lettere da un carcere. Racconti e volti di un’amicizia”

“Ciò che costituisce ogni uomo è un fascio di esigenze, di verità, di bene, di bellezza, di giustizia di felicità. Quello che la Bibbia chiama il ‘cuore di ogni uomo’ lo si può incontrare in ogni persona, anche in chi ha sbagliato tanto o se n’è dimenticato”, racconta a Interris Ida Matrone, insegnante, volontaria dell’associazione “Incontro e Presenza” nel carcere milanese di Bollate e autrice del libro Lettere da un carcere. Racconti e volti di un’amicizia, pubblicato dalla casa editrice Ares. Un epistolario di corrispondenze cominciato a scambiarsi con le persone detenute nella casa di reclusione dell’hinterland meneghino nei giorni in cui la pandemia di Coronavirus irrompeva con tutta la sua tragicità nelle vite di ciascuno di noi, con le conseguenti restrizioni e il lockdown scattato il 9 marzo 2020. “Attraverso l’incontro e l’amicizia che da esso scaturisce, queste esigenze possono rifiorire, tornare a esprimersi e diventare operative nelle nostra vita. Nessun male e nessun errore può eliminare totalmente questo cuore, e nessuno può strapparcelo”, testimonia ancora Matrone, che da 12 anni porta la sua presenza e il suo ascolto ai detenuti di Bollate. Un’esperienza nata quasi per caso, ma che aveva radici antiche.

L’inizio

Il seme di questa storia l’aveva gettato, quando Ida era una giovane studentessa, la sua insegnante Mirella Bocchini, la fondatrice, nel 1986, di “Incontro e Presenza”. Da suoi racconti degli incontri con i detenuti, Matrone comincia a conoscere la realtà carceraria. Questa è entrata davvero dentro la sua vita un decennio fa. “Per un caso fortuito, una volta ho accompagnato una volontaria a un incontro a Bollate e da lì tutto è cominciato”.

In cosa consiste la sua attività come volontaria?

“Ogni due settimane incontro i detenuti, circa una ventina, per un paio d’ore, e cominciamo a dialogare sulla vita, sul nostro rapporto con essa e con ciò che ci sta a cuore. Per trovare una rotta occorre capire chi siamo e come siamo fatti, serve chiarezza sull’io della persone e di come questo si rapporta con la realtà. Da questo dialogare sono pure nate iniziative a carattere culturale, ma si parte sempre dall’incontro, per capire di cosa hanno bisogno i detenuti”.

Di cosa hanno più bisogno i detenuti?

“Per quanto attiene i bisogni materiali, di tutto e di più. Ci sono poi quelli che, per esempio, cominciano a studiare e sviluppano bisogni culturali. Ancora, spesso sono preoccupati per le loro famiglie perché si sentono impotenti nel sopperire alle loro necessità e magari chiedono di fare ‘da tramite’. Proviamo anche ad aiutarli nel trovare delle strutture, quando sono quasi a fine pena e possono uscire per andare a lavoro o per fare volontariato”.

Cosa s’incontra più spesso in carcere, l’angoscia o la speranza?

“Provano un forte pudore per il loro passato, per cui è difficile che ‘tirino fuori’ l’angoscia legata ad esso, e noi non chiediamo mai cosa hanno fatto, che reato abbiano commesso. Molti sono disillusi, soprattutto quelli di una certa età o che vivono situazioni complicate anche fuori dal carcere, perché magari non hanno una casa dove andare. In carcere c’è chi entra in depressione e chi trova una speranza per il presente, se li si aiuta a capire che è proprio il quel momento, in quella situazione, che devono riprendere in mano la loro vita”.

In che modo un volontario nel carcere può dare sostegno e supporto morale, oltre che materiale?

“Lo si fa stando accanto alle persone, ascoltando le loro domande, le loro paure e il loro bisogno di comprendere quello che stanno vivendo e il loro bisogno di compagnia. Lo si fa condividendo con loro un pezzo di strada, perché la solitudine ti fa sentire abbandonato. Un detenuto, Filippo, in una lettera che ha scritto in un momento complicato – era in attesa di un permesso per incontrare i famigliari e gli era morto il padre – diceva “nel momento del bisogno vi ho incontrato”. Queste persone hanno le ‘antenne’ per il rapporto umano gratuito, che può proseguire anche fuori dal carcere”.

Perché ha deciso di raccogliere questo scambio di lettere?

“Durante il lockdown non potevamo più entrare nel carcere, così ci siamo scritti, ed è stato reso possibile da tutta l’esperienza vissuta in questi anni. In questi rapporti umani c’è un’incredibile ricchezza, molti si sono fatti ancora più profondi. Quando ho avuto tra le mani questo gruzzolo di lettere, molte delle quali trovo commoventi, un amico mi ha proposto di pubblicarlo. L’ho fatto raccontando in prima persone come mi sono posta come volontaria e cosa ho visto in questi dieci anni”.

Qual è stato l’impatto pandemia sui detenuti?

“Hanno vissuto una fortissima preoccupazione perché dall’esterno arrivavano notizie drammatiche e i loro rapporti con le famiglie erano stati interrotti. A Bollate l’amministrazione ha ‘tamponato’ un po’ la situazione dando possibilità ai detenuti di telefonare più spesso ai propri cari o di usare il tablet per le videochiamate. Purtroppo sono anche stati interrotti i corsi e i laboratori e si è fermato tutto anche per quelli che potevano uscire per lavorare fuori dal carcere, ancora adesso si fa fatica a ricominciare”.

Quanto sono importanti, insieme, la giustizia e il perdono per consentire all’uomo che ha commesso un errore di rialzarsi e alla società di riaccoglierlo?

“Il carcere deve aiutare la persona a ricominciare un cammino, così come la società deve accogliere chi ha scontato la propria pena. Il perdono non è solo questione personale, la società su questo deve interrogarsi. La Costituzione ci dice che la pena deve tendere a far rialzare la persone, e questo è possibile se non si guardano soltanto l’errore e la colpa, ma tutta la persona”.