“Fra Noi”, un esempio di inclusione lavorativa per i rifugiati

L'intervista di Interris.it a Monica Molteni, referente del progetto "Fra Noi, un modello di welfare innovativo per persone con fragilità

© Progetto “Fra Noi”

“No one left behind” ossia “non lasciare nessuno indietro” è uno dei principi fondamentali contenuti all’interno dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite con l’intento di realizzare la giusta transizione verso una società, un mercato e un mondo, più equi e inclusivi. Tale obiettivo si realizza, anche e soprattutto, attraverso la cosiddetta “diversity and inclusion” che, attraverso un’unione delle peculiarità del mondo profit e non profit, intende creare un mondo del lavoro accessibile per le persone con diverse fragilità.

Il progetto “Fra Noi”

Il progetto “Fra Noi”, finanziato dal Ministero dell’Interno con il Fondo Asilo Migrazione e Integrazione (Fami) e realizzato da una rete di 25 enti guidati da Consorzio Communitas, insieme a Consorzio Farsi Prossimo e a diverse aziende, punta a integrare stabilmente persone titolari di protezione internazionali nei paesi e nelle città in cui vivono. In particolare, l’opera del progetto ha permesso a 180 persone, tra cui rifugiati politici o persone che si trovano in Italia con un titolo di protezione umanitaria, di entrare nel mondo del lavoro attraverso uno specifico percorso di inserimento. Interris.it, in merito a questa esperienza di inclusione, ha intervistato la referente Monica Molteni.

L’intervista

Come si è sviluppato il progetto “Fra Noi”? In che modo ha incentivato l’inclusione sociale e lavorativa di migranti e rifugiati?

“Il progetto “Fra Noi” è arrivato alla seconda edizione. Quindi, dopo la prima, che si è conclusa nel 2018/2019, attraverso un nuovo finanziamento, abbiamo avuto l’opportunità di avviare la seconda edizione, la quale ha preso avvio in piena pandemia, proprio durante il lockdown, pertanto l’inizio è stato in salita. È stato molto interessante perché abbiamo visto che, quanto è stato seminato nel corso della prima edizione, ha portato a dei buoni frutti, nel senso che, nonostante la pandemia, è stato molto più semplice prendere i contatti con le aziende e anche avere la loro disponibilità per una collaborazione fattiva sul fronte dell’integrazione lavorativa dei rifugiati. Abbiamo avuto l’opportunità di operare con aziende di diverse dimensioni, nel nord Italia medio – grandi, mentre in altre regioni, anche piccole, ma comunque sempre con delle ottime opportunità di crescita sia per i rifugiati inseriti che per le aziende, in quanto si sono ritrovate dei lavoratori molto tenaci nonché orientati a trovare una propria autonomia, soddisfazione personale e molto interessati all’acquisizione di nuove competenze.”

In che modo, questa attività progettuale, ha incentivato la collaborazione fra gli Enti del Terzo Settore e le aziende profit nell’ottica del favorire l’inclusione?

“Si è arrivati a un punto nel quale ci si sta rendendo conto pian piano che, lavorare a stretto contatto tra mondo profit e non profit, rappresenta la via maestra per poter ottenere dei risultati vincenti sia per entrambi. Se, fino a qualche anno fa, timidamente, si provava a prendere dei contatti con le aziende, oggi c’è stato un graduale avvicinamento che ha permesso di conoscerci meglio e avviare delle collaborazioni proficue. È un lavoro costante che richiede del tempo, però dà i suoi frutti.”

Quali sono i vostri desideri per il futuro in riguardo a questo?

“Il nostro obiettivo è quello di arrivare ad una ibridazione sempre maggiore, ossia portare le imprese profit ad incentivare e proporre il proprio lato sociale, ossia portare l’attenzione all’impatto che si ha sulla comunità e sull’ambiente con il proprio business. Oltre a ciò che, le imprese sociali, siano sempre più capaci di acquisire quelle competenze manageriali che consentono di collaborare al meglio con le aziende per trovare la giusta vicinanza al fine di realizzare dei progetti proficui per entrambi.”