Animenta e la lotta contro i disturbi alimentare. La storia di Aurora Caporossi

Aurora Caporossi, fondatrice di Animenta, racconta come ha superato i suoi problemi legati al rapporto distorto con il cibo

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Foto di Annie Spratt su Unsplash

Sono oltre 3 milioni in Italia le vittime di una piaga che non si riconosce sempre in tempo. Vittime del distorto rapporto con il cibo, con il proprio corpo, con sé stesse principalmente. Raccontare per sensibilizzare è lo scopo di Animenta, associazione no profit creata per raccontare, informare e sensibilizzare sui disturbi del comportamento alimentare. È un luogo in cui ogni storia è accolta e ascoltata senza giudizi: “Siamo nati raccontando storie di chi ha affrontato queste malattie”, dice Aurora Caporossi, giovane fondatrice dell’associazione.

Come nasce Animenta?

“Ho 25 anni nella vita mi occupo di marketing e comunicazione ad impatto sociale, legata a temi che affrontano le tematiche del corpo, del cibo, del peso e due anni fa ho fondato Animenta, una realtà che sul tutto il territorio nazionale si occupa di disturbi del comportamento alimentare. Le esperienze e la sua nascita arrivano dalla mia esperienza personale perché io a 16 anni mi sono ammalata di anoressia nervosa”.

Cosa ricorda di quel periodo?

“Non molto. Quello che ricordo è attraverso i racconti di mia madre, nelle cose scritte, nelle fotografie. La mia terapeuta dice che la mia mente ha attivato un meccanismo di protezione da alcuni ricordi. Mia madre mi raccontava di una profonda solitudine che provava anche lei standomi accanto. Quando si rivolgeva a tanti professionisti le davano la colpa, come se fosse stata lei responsabile di quello che mi accadeva”.

Non era così? 

“I genitori non hanno colpe nell’insorgenza dei disturbi alimentari. Noi in associazione ne parliamo sempre.  Anzi, è fondamentale considerare e includere la famiglia nel percorso che si intraprende”.

Cos’è un disturbo alimentare?

“Una patologia psichiatrica, una malattia mentale che riguarda un rapporto complesso con il corpo, il cibo e il peso e attraverso questo rapporto difficile si vuole esprimere un dolore, un disagio molto profondo che a parole non si riesce a dire, così non è solo qualcosa che riguarda corpo e cibo ma nasconde altre cose che non si vedono”.

Com’era per lei?

“Quando mi sono ammalata di anoressia nervosa, che si caratterizza con comportamenti restrittivi nei confronti del cibo e con un corpo che diventa sempre più piccolo fino ad andare sotto peso, inizialmente non si vedeva. I medici cui si rivolgeva mia madre dicevano che era solo un capriccio, una moda che sarebbe passata ma i disturbi alimentari non sono mai un capriccio e non sono una moda. Nessuno sceglie di ammalarsi. Animenta nasce proprio da quello che mi è mancato nel percorso di cura, con l’idea di prevenire l’insorgenza del disturbo, offrire alle famiglie strumenti necessari per individuarlo e intraprendere un percorso di cura. Dai disturbi alimentari si guarisce dando alle persone la possibilità di curarsi”.

Lei ha cancellato quel periodo, come ha ricostruito tutto?

“Ci è voluto un anno e mezzo, all’inizio neanche sapevo cosa stesse succedendo al mio corpo, insieme all’anoressia c’era una percezione alterata del mio corpo. Allo specchio non mi vedevo emaciata, per me stavo bene ed è stato difficile avere la percezione reale di quello che stavo facendo a me stessa e come il mio corpo stesse provando a sopravvivere. Nel percorso di guarigione smetti di sopravvivere per imparare a vivere ma hai la paura di farlo perché i disturbi alimentari sono patologie che vanno a braccetto con il nostro Io. Sembra tutto funzionare, pensi di avere il controllo sul corpo e sul cibo e così di controllare tutto e invece è il contrario, sono loro che controllano la tua vita”.

Animenta è stata un’ulteriore terapia?

“Più una presa di consapevolezza. Dopo aver sofferto di anoressia me ne sono vergognata per tanti anni, l’ho chiusa in un cassetto pieno di lucchetti e nessuno me ne doveva parlare. Mi sentivo in colpa per la sofferenza che avevo fatto provare a mia madre ma attraverso studio e terapia ho capito che non sei tu che scegli di ammalarti. Prima di Animenta ho fatto un percorso di terapia per capire se fossi pronta, perché i disturbi alimentari sono patologie molto complesse a volte si rischia di restare attaccati al passato, alla malattia che ha tanto a che fare con la nostra identità è importante riuscire a definire noi stessi a prescindere da ciò che abbiamo affrontato, consapevoli che è un capitolo della nostra storia. Aurora come tutti gli altri, è tanto altro oltre alla malattia”.

Ci sono punti in comune tra tutte le storie raccolte?

“Ogni storia è diversa ma c’è un filo che le collega ed è il profondo senso di solitudine, la sensazione di non sentirsi accolti dagli altri”.

 Quanta conoscenza c’è sull’argomento?

“Quando chiediamo cos’è un disturbo alimentare la maggior parte delle persone cita in genere anoressia e bulimia nervose ma i disturbi alimentari non sono solo questo e non sono solo un corpo magro. Solo il 6% delle persone è sottopeso in genere, eppure la narrazione è quasi sempre in questo senso. Tantissime persone così credono di non rientrare nella rappresentazione che vedono in giro, ma il problema c’è. Ascoltare e raccontare le storie di ognuno abbatte gli stereotipi, quelli che si soffermano su questione di peso e basta, o su una fascia d’età quando invece non ci sono limiti, queste malattie non hanno barriere”.

E sono in aumento.

“Aggravate anche dalla pandemia che ha fatto emergere tutto il sommerso, ci ha fatto sedere a tavolino con i nostri fantasmi. Questo ultimo biennio ha visto l’aumento delle diete, degli allenamenti, della circolazione di informazioni scorrette sul cibo, su quanto il corpo sia sempre qualcosa da cambiare creando un terreno fertile per i disturbi alimentari. Ci sono esordi precocissimi anche tra gli 8 e i 10 anni per esempio con l’Arfid, che restringe l’assunzione di certi alimenti per paure che non hanno sempre a che fare con il peso ma che si accomunano con altre patologie”.

Chi si rivolge a voi e come vi raggiunge?

“Il ponte che crea il legame è online, attraverso il sito. Poi ci sono gli eventi a cui partecipiamo. A noi si rivolge chi segue una terapia per i disturbi alimentari per avere supporto e confronto. Ci scrivono scuole e aziende, facciamo incontri anche con professionisti e accendiamo un faro sui disturbi alimentari anche lì dove sembra non esistano”.

Come vi sostenete?

“Abbiamo la nostra pasta, la pasta Animenta che ci permette di raccogliere fondi. È una pasta lucana con etichette parlanti. Poi ci sono le donazioni di aziende o privati, bomboniere solidali per eventi, un ebook che si può scaricare con un’offerta libera e tanti progetti sulle nostre pagine”.

Ci sono riscontri e risultati?

“Sì, tante persone ci danno dimostrazioni. Quelle che rispondono ai nostri questionari, molto indicativi per noi, dicono che con Animenta sentono di non essere più soli”.

Lei come sta adesso?

“Questa è una domanda a cui tengo tanto, perché è stata la domanda di apertura del mio percorso di terapia.  Per me adesso è un momento difficile per la perdita di mio padre, che è stato sempre il fan numero uno di Animenta, Così è un momento di ripresa di consapevolezza. Molti mi chiedono spesso: “Mangi?”. Perché è diffuso il timore che un trauma riporti tutto indietro, ma non è così. Ho promesso a mio padre che sarei stata in grado di aiutare gli altri e me stessa. Ho una terapeuta e posso dire che il rapporto con il cibo e con il mio corpo è tornato sano. Ho come una cassetta degli attrezzi che mi permette oggi di individuare i campanelli d’allarme”.

Quali sono? Che atteggiamento può avere un genitore nell’eventualità che si palesino?

“In associazione la chiamiamo la porta socchiusa, perché la porta aperta è troppo invadente e quella chiusa sembra indicare indifferenza. La porta socchiusa è quella che dice che ti vedo, ti sono accanto, sono qui con te. Non ci sono ganci troppo spesso, l’ho vissuto con mia madre in prima persona, la prima azione è avere tutti gli strumenti di conoscenza per poter avvicinarsi con consapevolezza, essere in due in terapia per accompagnare l’altro, costruire un ambiente di comfort dove la persona si senta libera di esprimere il suo dolore, non focalizzando l’attenzione sul corpo o sul cibo. La persona ha già la mente occupata su quel pensiero costantemente e non è mettendo la luce su questo che la salviamo. Lo scopo è portare la persona a chiedere aiuto. Si tratta di far capire che ha una vita che l’aspetta. Io avevo paura della mia ombra, mi sembrava troppo grande. Ora so che avere un’ombra è importante: dice che siamo presenti nel mondo”.

Si può guarire dal disturbo alimentare dunque?

“Dire che non è possibile non è corretto scientificamente né umanamente. Ognuno con i propri tempi sicuramente può guarire”.