Afghanistan, i talebani e l’incubo della rivalità terroristica

Intervista di Interris.it a Sofia Cecinini, coordinatrice dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale

Afghanistan

Coincidenze in serie. L’Afghanistan torna in mano talebana a meno di un mese dal ventennale degli attentati dell’11 settembre 2001 e praticamente in parallelo al ritiro dei militari americani. L’epilogo della più lunga guerra statunitense e, al contempo, il ripristino di una stagione politica e culturale che porterà inevitabili contraccolpi per la popolazione afghana. Ma le ombre di quel fine estate di vent’anni fa sono altrettanto inevitabili. Se non altro per quella sensazione strisciante che due decenni di guerra, addestramenti, presenza sul territorio, il quadro si sia mosso appena. Il debole corso politico inaugurato in Afghanistan è stato scalzato in modo netto dal rientro dei talebani a Kabul, senza intervento da parte di un esercito formato nelle sue basi proprio dai militari americani. Una nuova era della Repubblica islamica, accolta con euforia proprio da quell’al Qaeda che fu mente e braccio della strage del World Trade Center. “E’ un’organizzazione ancora pericolosa – ha spiegato a Interris.it Sofia Cecinini, coordinatrice dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss – ma ha perso la possibilità di realizzare un nuovo 11 settembre”.

Dottoressa Cecinini, il ritorno dei talebani a Kabul è grossomodo coinciso con il ventennale degli attacchi dell’11 settembre 2001. Una coincidenza che ha riacceso l’attenzione globale sul nome di al Qaeda e sull’ombra terroristica dell’Oriente, anche per il ritiro dell’esercito americano. Le organizzazioni che fanno capo al movimento fondato da bin Laden come hanno accolto il cambio di vertice in Afghanistan?

“Abbiamo una notizia buona e una cattiva: la buona è che in vent’anni al Qaeda è cambiata. Il fondatore bin Laden è stato ucciso, mentre sul leader successivo, al-Zawahiri, circolano informazioni contrastanti. Alcune indiscrezioni dicono goda di pessima salute, altri hanno parlato addirittura della sua morte e della possibile nomina di un successore, Saif al-Hadel. Ex ufficiale dell’esercito egiziano. Inoltre, dal 2019, sono stati eliminati altri comandanti chiave dell’organizzazione. Al Qaeda, quindi, ha perso la possibilità di organizzare un attentato come quello dell’11 settembre 2001. Il rovescio della medaglia è che l’ideologia a oggi è più radicata e viva che mai”.

In che senso?

“Il numero delle organizzazioni jihadiste è quadruplicato negli ultimi vent’anni. Un report dell’Onu ha evidenziato l’espansione di al Qaeda non solo in Africa ma anche in Siria, nella Penisola arabica, in Bangladesh e nell’Asia meridionale. In Afghanistan, le fonti riferiscono che sia presente in almeno 15 delle 44 province, per una stima di circa 600 combattenti. Un dato preoccupante. Nel 2001, i combattenti stimati ammontavano a circa 200. E’ vero che negli ultimi vent’anni non sono riusciti a organizzare attentati complessi come quello dell’11 settembre, un po’ per la bravura degli Stati Uniti nella prevenzione. Un campanello d’allarme, però, c’è stato nel 2019. Un attacco del 6 dicembre, presso la stazione aeronavale di Pensacola, in Florida, dove uno studente ha ucciso tre persone e ne ha ferite altre otto. Rivendicato sei mesi dopo proprio da al Qaeda. Questo ci fa ritenere che l’organizzazione è viva e ancora pericolosa”.

Tale da rappresentare un rischio concreto? Quanto si è modificata la capacità organizzativa negli ultimi vent’anni?

“Quello al World Trade Center è stato un attacco organizzato dai leader, dall’alto verso il basso come logica. Ora al Qaeda ha cambiato la propria struttura e siamo più esposti al rischio di attacchi dei lupi solitari. Come nel caso di questo ragazzo a Pensacola”.

L’Afghanistan entra in una fase che molti ritengono potenzialmente simile a quella pre-Usa. Quanto incide la presenza dei miliziani dell’Isis, soprattutto nella regione del Khorasan?

“Per quanto riguarda l’Afghanistan, la vittoria dei talebani è stata da una parte acclamata da tutta la sfera jihadista legata ad al Qaeda. Quella legata all’Isis, come visto con l’attacco del 26 agosto a Kabul, non ha gradito. La sfera afghana del Daesh, il Khorasan, è in aperto contrasto coi talebani. La loro vittoria, da un lato fomenterà la propaganda jihadista ma ha acceso anche una rivalità fra al Qaeda e Isis per ottenere la leadership della galassia jihadista”.

Si tratta di una situazione più radicata rispetto alla vittoria talebana o è esplosa a seguito del loro rientro a Kabul? Anche in altri Paesi si registra una condizione simile?

“Sì, non si tratta di un sentimento confinato. Da quando è nato l’Isis i contrasti ci sono sempre stati, per modus operandi e per strategia. Mentre al Qaeda, nei suoi attacchi, ha cercato di colpire i nemici dell’Occidente, l’Isis andava a colpire i musulmani stessi. E in Afghanistan, da quando è nata la provincia di Khorasan, da circa sei anni, questi contrasti ci sono sempre stati. Sono stati segnalati episodi di combattimenti di talebani accanto agli americani contro i miliziani dell’Isis-Khorasan. Questo contrasto è più evidente ora con il ritorno dei talebani al potere, mentre fino ad agosto lottavano per tornare. Ora ci sono ulteriore interessi per contrastare il loro operato, anche alla luce del ritiro americano”.

Ha colpito la tempistica: i talebani tornano al potere parallelamente al ritiro. Vent’anni di guerra in Afghanistan con la sensazione che con la smobilitazione si sia tornati alla situazione originaria. Non si è fornito apporto sufficiente per garantire una stabilità politica al Paese o la presenza americana non ha partecipato alla ricostruzione?

“Il ritiro era già stato annunciato da Trump. Noi alleati europei eravamo stati avvisati per tempo. E come ha spiegato Biden, gli americani hanno finito il loro lavoro. La situazione non è come quella di vent’anni fa. I talebani sono tornati al potere diversi. Gli americani, dall’iniziale contrasto ai talebani, hanno iniziato con l’addestramento di soldati afghani, che fossero in grado di combattere i nemici interni. E in vent’anni si è arrivati a formare un esercito di 300 mila soldati addestrati, a fronte di una spesa di un trilione circa. Negli ultimi due anni, i talebani hanno capito che tornare al potere dopo un così ampio lasso di tempo non poteva fondarsi sugli stessi presupposti del 2001. La popolazione dell’Afghanistan è molto giovane, si tratta di persone nate con gli americani in casa e che hanno assorbito la politica delle democrazie occidentali. Il talebanesimo dei primi anni Duemila non è fattibile. E i talebani lo sanno, così come sanno che devono abbracciare la moderazione, come hanno fatto negli ultimi due anni appunto, lavorando con l’esercito afghano cercando di corrompere militari, come dimostrato dal fatto che le forze armate afghane non si sono opposte all’invasione di Kabul. Questo perché i talebani, negli anni passati, hanno lavorato in tal senso”.

Senza contezza da parte degli Stati Uniti?

“Loro non sono stati in grado di rintracciare questo fenomeno che stava accadendo. O meglio, si sono resi conto che l’esercito che loro avevano formato non avrebbe combattuto. Per cui c’è stata la fretta di ritirare tutti i cittadini stranieri entro la scadenza del 31 agosto. Data che Merkel, Johnson e Macron avevano chiesto di posticipare visto il caos creatosi alla fine del mese scorso, ma Biden è stato irremovibile. In sostanza, i talebani non sono più quelli di prima. Questo non significa che la minaccia di al Qaeda sia in diminuzione ma è chiaro che non si ritroverà di fronte all’Afghanistan del 2001”.

Kabul è stata in questi anni la città con più attentati terroristici al mondo. Quegli attacchi che in Occidente hanno forse poco eco ma che sulla popolazione afghana hanno prodotto effetti devastanti, anche perché spesso avvenuti in quartieri popolari o universitari. Cosa c’è da aspettarsi? Anche alla luce della rivalità Isis-al Qaeda…

“Gli attentati hanno subito un arresto. Se prima erano i talebani a farli, ora questo interesse non c’è più. Anzi, hanno tutto l’interesse e mirano a proteggere il più possibile la popolazione afghana. Anche perché memori di vent’anni di occupazione straniera, arrivati al potere faranno di tutto per mantenerlo. Ma il problema della rivalità fra al Qaeda e Isis c’è, come dimostrato dagli attentati a Kabul di fine agosto. E in questo si vedrà la capacità dei talebani di difendere il Paese. Sarà un grosso test nel senso che, se gli Stati Uniti finora erano stati un ‘poliziotto mondiale’ per mantenere l’ordine, ora si sono disimpegnati. Ma è vero che tutto il mondo è in lotta con il terrorismo. E quindi i talebani sanno che se facessero tornare l’Afghanistan in condizioni tali da renderlo base del terrorismo globale, è chiaro che tutto il mondo sarebbe pronto a intervenire per contrastare la diffusione del fenomeno”.

Gli attentati di agosto hanno contribuito a una nuova euforia?
“L’Isis ha sfruttato la scia dell’euforia degli attentati all’aeroporto di Kabul e la sfrutterà ancora per attrarre sempre più seguaci in Afghanistan. Quindi ci si aspettano anche altri attentati sulla scia del successo, dal punto di vista dell’Isis, di quanto accaduto a fine agosto. Chiaramente i talebani dovranno fare di tutto per evitare che questo accada, anche nell’ottica di un dialogo o di un ipotetico riconoscimento da parte dei governi stranieri”.

In questi anni anche all’Europa è toccato un conto salato in termini di attacchi terroristici. Nonostante la sconfitta e la caduta delle roccaforti maggiori, l’Isis pare aver installato ulteriori e violenti cellule anche in altre regioni, come ad esempio il Sahel. Significa una frammentazione o la creazione di nuove basi della guerra jihadista?

“Si tratta di situazioni contestualizzabili in un quadro più ampio. E’ chiaro che l’Isis, come fatto in Siria, nonostante la sconfitta sempre più cellule si sono radicate nel Sahel. Perché punti caldi come il Medio Oriente o in certi stati africani, i governi sono molto più deboli ed è lì che queste organizzazioni possono portare avanti le proprie attività in maniera indisturbata. Motivo per cui anche la vittoria dei talebani e il successo dell’attentato contro di loro, genera un fomento generale. Da una parte le organizzazioni legate ad al Qaeda, che coesistono anche nel Sahel e nel Maghreb islamico, dall’altra l’euforia minore dell’Isis che conduce attacchi con successo, si genera un’euforia da entrambe le parti. Ci si possono aspettare ondate di foreign fighters che proveranno a raggiungere l’Afghanistan, ovviamente adesso anche gli Stati vicini hanno attuato delle leggi stringenti rispetto all’entrata di combattenti stranieri. Si tratta comunque di Paesi che non hanno la capacità di controllo capillare come in Europa. Per quanto anche qui abbiamo avuto i nostri attacchi”.