Web tax, l'ennesima follia fiscale

Una volta si pensava all’evasore fiscale come al piccolo negoziante, al ristoratore di Cortina che faceva pagare conti salati senza emettere lo scontrino ad esempio, magnificando, magari, i blitz della Guardia di Finanza nei centri turistici più esclusivi alla ricerca di irregolarità ma, con il tempo, questa percezione ha spostato l’obiettivo anche per merito della diffusione sempre più spinta dell’accesso ad internet.

Molto ha giocato, in tal senso, l’attività frenetica della Commissione Europea nel cercare di sanzionare le grandi aziende tecnologiche, da Apple ad Amazon, ree di aver situato le loro branch continentali negli Stati che offrissero loro un tax ruling più conveniente (benché i due casi siano assai differenti ma non è questo l’argomento che si vuol trattare in questa sede).

Ecco che Google, Ebay e le già citate Apple e Amazon assurgono ad immagine del grande elusore fiscale, di soggetti che, pur non evadendo le imposte, tramite arbitraggi andrebbero a danneggiare l’erario dei Paesi in cui operano laddove la loro sede finanziaria non fosse residente.

Da qui nasce la ratio della Web tax, un balzello che andrebbe a colpire come cedolare secca al 6% i ricavi provenienti dal territorio italiano e, in prospettiva, da ogni altro territorio interno all’Ue qualora l’impostazione diventasse condivida e strutturale in tutta l’Unione.

L’introduzione di questa imposta è un passo concettuale non banale perché, in questo caso, non si andrebbero a colpire i redditi ma i fatturati. Si tratterebbe di un’imposta a monte che, alla fine, si configurerebbe come un costo ulteriore nell’erogazione dei servizi che andrebbe a unirsi a tutte le imposte indirette che queste aziende già pagano sul territorio italiano.

Veramente qualcuno crede che Amazon, ad esempio, non paghi imposte in Italia? Solo per le installazioni logistiche e il nuovo centro direzionale a Milano questa verserebbe allo stato Tasi e Imu come imposte fondiarie, la Tari per lo smaltimento sui rifiuti, l’Irap sulle attività produttive qui imputabili, le accise sull’energia, etc.

Aggiungendo che il gettito fiscale dell’Ires complessivo a tutto il comparto aziendale italiano è pari a poco più del 7,6% del monte fiscale, quindi, non si può certo dire che le aziende web arrechino un vero danno ai conti dello Stato laddove non pagassero alcuna imposta reddituale, contribuendo, invece, in maniera importante tramite le altre voci che compongono il Total Tax Rate nel Paese.

A fronte di questi dati non sembra assurdo questo irrigidimento su una cosa simile? Se si giudicasse semplicemente dal lato economico una risposta positiva sarebbe scontata, ma dal lato politico, invece, la cosa diventa completamente differente andando a colpire l’immaginario diffuso in un’ottica di giustizia fiscale e di possibile redistribuzione del reddito, dimenticando la regola aurea su questa funzione sociale delle imposte che recita, più o meno, “prima di poter redistribuire un reddito questo va prodotto”.

In questo sta uno dei punti deboli dell’impianto proposto. Una Web tax così strutturata va a colpire le transazioni e si applica sul fatturato, poco importa che la marginalità derivante dall’incasso possa essere, in linea teorica, anche inferiore al prelievo dello stato. La base imponibile non è più l’utile generato ma quanto incassato e la cosa, in linea prospettica, avrà un importante contraccolpo a livello dei prezzi sia da parte dei fornitori del servizio sia da parte degli intermediari che fungeranno da sostituto d’imposta e dovranno modificare la gestione dei database per tracciare ogni singolo movimento per stabilire su quali applicare l’imposta cosa che comporterà, credibilmente, un aggravio di costi che saranno compensati dalla modifica delle commissioni relative ai servizi offerti che si ripercuoteranno sugli utenti finali.

Non sono questi, però, gli aspetti peggiori di questo nuovo balzello che, invece, vanno a colpire le aziende e il mercato stesso. Con il pretesto di colpire i big della Silicon Valley, visti come i grandi elusori del fisco, saranno, invece, le Pmi italiane le più colpite; sì, proprio quelle imprese che la politica giur di tenere più a cuore come motore pulsante dell’economia del Paese in contrapposizione alle grandi multinazionali e che sono state spinte verso la digitalizzazione della loro offerta commerciale mediante il Piano Industria 4.0 e in particolare le start up.

Il sistema di compensazione della Web tax, che genererebbe un credito di imposta da applicare all’Ires per le aziende residenti, evitando così, la doppia imposizione, va ad appesantire, di fatto, i conti delle nuove imprese che ancora non hanno raggiunto il break-even e non generano utili, creando così un aggravio fiscale ulteriore verso quelle imprese innovative che vengono magnificate sui media continuamente ma che, così, si vanno a colpire pesantemente dal lato della marginalità dei ricavi.

Inoltre questa imposta è fortemente distorsiva del mercato poiché rende un servizio, acquistato sul web, assai più caro in Italia che all’estero spingendo, magari, ad acquistarlo altrove. Immaginate la gestione di un sito che in Svizzera costi 100 e qui 106. E' una cosa in effetti già vista con l’equo compenso Siae verso i supporti di memoria, come gli hard disk. Chi impedirebbe di andare ad acquistare i servizi a Chiasso anziché dalla branch italiana come già si faceva con l’acquisto a Media Markt invece che a Media World (per citare due marchi della stessa catena), a questo punto? Se questa, poi, chiudesse, che contraccolpo darebbe all’indotto relativo e ai conseguenti introiti fiscali?

L’ultimo paradosso, poi, lo si incontra proprio nella struttura stessa della Web tax che colpisce, in maniera più esplicita, le imprese non residenti: si tratta a tutti gli effetti di un dazio.

Siamo sicuri che non esistano dei presupposti di incompatibilità già con il Trattato Ue laddove prevede, tra i pilastri fondanti, la libera circolazione dei servizi?

Un ultimo punto da sottolineare sta nella miopia politica che va a giustificare la solita vis spoliandi mascherata dietro una mossa di equità fiscale dalle basi meramente populiste. Un Paese che vive di export e che sta cercando in ogni maniera di incentivare le vetrine internet e di digitalizzare i processi produttivi ed amministrativi per migliorare la propria visibilità e il posizionamento competitivo sui mercati, ovviamente mediante i servizi venduti dalle principali aziende tecnologiche al mondo, penalizzando il canale web ricorda l’Heautontimorumenos di Terenzio o il Taffazzi del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, per restare su un personaggio più popolare.