Il pericolo delle sottovarianti che resistono ai farmaci

La sotto variante BQ1.1 (Cerberus) risulta essere resistente a tutti gli anticorpi monoclonali attualmente disponibili e per questo il loro impiego, sia in profilassi che in terapia, risulta essere problematico (Prerna Arora e altri). Uno studio (Rita W. Y. Ng) ha valutato la persistenza dell’immunità dopo l’infezione da SARS-CoV-1 avvenuta nel 2003 e la rilevanza che questa presenta, in termini di protezione, nei confronti di SARS-CoV-2. I soggetti infettati con SARS-CoV-1 presentavano anticorpi in grado di cross-reagire con SARS-CoV-2 e questa risposta veniva ulteriormente amplificata, somministrando sia il vaccino a virus ucciso (CoronaVac) che quello a mRNA (Pfizer). Da questo studio emerge che è possibile realizzare vaccini in grado di conferire un’adeguata copertura anche nei confronti di virus diversi, appartenenti tutti alla stessa famiglia (sarbecovirus).

Vi è, al momento, grande attenzione da parte della comunità scientifica nei confronti della risposta immunitaria di tipo protettivo a livello delle prime vie aeree, punto di ingresso e di replicazione di SARS-CoV-2, nella convinzione che questa possa positivamente influenzare l’evoluzione dell’infezione. A questo proposito è stato studiato l’effetto di una singola dose di vaccino Pfizer, somministrata a soggetti senza pregressa infezione e a soggetti guariti da COVID-19. Dai risultati è emerso che l’immunità specifica antivirale si sviluppa nelle prime vie aeree in modo più significato nei soggetti vaccinati e con pregressa infezione rispetto a quelli vaccinati senza infezione.

Una ricerca (Shrestha N.K. e altri) condotta in un largo numero di impiegati della Cleveland Clinic negli Stati Uniti, precedentemente infettati o vaccinati, ha evidenziato che la somministrazione di un vaccino non disegnato specificamente per Omicron, è comunque in grado di fornire una protezione adeguata nei confronti di questa variante ed inoltre non c’è alcuna necessità di somministrare più di una dose nei soggetti con pregressa infezione. Uno studio retrospettivo condotto in Brasile (Cleber Vinicius Brito dos Santos e altri) ha stimato il numero di decessi evitati nel corso del primo anno della campagna vaccinale. In particolare, è emerso che ben il 74% dei decessi è stato evitato grazie alla vaccinazione, percentuale questa pari ad un numero totale di 303.129 soggetti adulti.

L’effetto del farmaco antivirale molnupiravir somministrato come trattamento precoce a soggetti adulti a rischio per forme gravi di COVID-19, è stato oggetto di un ampio studio (PANORAMIC) condotto nel Regno Unito che ha coinvolto nel periodo dicembre 2021 – aprile 2022, oltre 26.000 partecipanti vaccinati contro SARS-CoV-2, 12.000 circa dei quali avevano anche ricevuto molnupiravir (Butler C.C. e altri). I risultati ottenuti hanno indicato che molnupiravir non riduce né l’ospedalizzazione né i decessi in soggetti vaccinati ad alto rischio che hanno contratto l’infezione. Le caratteristiche di ceppi virali di SARS-CoV-2 resistenti al paxlovid, sono state oggetto di una ricerca condotta in vitro (Yuyong Zhou e altri), dalla quale è emerso che il farmaco antivirale remdesivir e l’anticorpo monoclonale bebtelovimab, mantengono inalterata la loro efficacia nei confronti dei ceppi virali resistenti e questo effetto può essere aumentato dalla contemporanea somministrazione di paxlovid. Questa osservazione ottenuta in laboratorio presenta delle innegabili implicazioni cliniche e suggerisce opzioni terapeutiche alternative, in caso di comparsa di ceppi di SARS-CoV-2 resistenti al paxlovid.

L’antibiotico resistenza ha rappresentato, ben prima dello sviluppo di COVID-19, una pandemia silente che causa un elevato eccesso di mortalità, oltreché aumentare la durata delle ospedalizzazioni ed i costi della sanità. L’effetto della pandemia COVID-19 sull’antibiotico resistenza, è stato oggetto di una ricerca (Bryant O.K. e altri) che ha analizzato la prescrizione antibiotica nei pazienti non ospedalizzati nel Regno Unito, comparando il periodo pre-pandemico a quello pandemico (2018-2022). È emerso da questa analisi che ci sono state fasi diverse per quanto attiene la prescrizione antibiotica: un’iniziale riduzione della stessa nel corso del lockdown ed un successivo aumento causato, verosimilmente, dall’incremento delle prescrizioni terapeutiche effettuate per via telefonica. La conclusione a cui giunge questa revisione effettuata a posteriori della prescrizione antibiotica ambulatoriale, è che la pandemia COVID-19 non ha impedito l’attuazione delle misure improntate alla riduzione dell’uso degli antibiotici quale prevenzione allo sviluppo delle resistenze. Uno studio (Howard Larkin) ha riguardato la capacità che hanno i cani di riconoscere, tramite l’olfatto, la presenza di un’infezione attiva da COVID-19, che a seconda delle diverse esperienze, raggiunge una specificità pari al 100% ed una sensibilità dell’82%. Questo riconoscimento potrebbe trovare utile applicazione nel corso di eventi di massa, per ridurre il rischio di diffusione dell’infezione.