Perché Papa Francesco ha parlato di un Natale triste

Roma 26/03/2019 - Papa Francesco visita in Campidoglio / foto Samantha Zucchi/Insidefoto/Image nella foto: Papa Francesco (immagine di repertorio)

Prepararsi al Natale e immaginare come si prepari Francesco in questo 2022 segnato dalla nuova guerra mondiale, più o meno a pezzi, una guerra soprattutto tra cristiani tanto da non poter proclamare neanche una tregua per Natale, per me vuol dire cercare un filo in quel che mi ha colpito delle sue affermazioni di questi giorni di attesa, di preparazione. Queste sottolineature mi hanno aiutato a cercare di capire meglio perché abbia parlato di un Natale triste per quanto accade in Ucraina e in tanti altri conflitti.

La prima sottolineatura importante per me è una frase che ha pronunciato all’udienza generale di mercoledì scorso, quando ha detto: “Molte volte possiamo avere un’idea distorta di Dio, considerandolo come un giudice arcigno, un giudice severo, pronto a coglierci in fallo”. Non si tratta del giudice di chi si sente chiamato a sconfiggere il male e imporre il bene, rendendo questa una guerra tra il bene e il male, tra i figli della Luce e i figli delle Tenebre?

Questa idea ci ha accompagnato per secoli, e forse a quel tempo se ne poteva avvertire il bisogno di un Dio così, non lo so, ma posso provare a immaginarlo. Sono abbastanza sicuro però che questo oggi crei un problema enorme, perché il rapporto fallito tra noi e le nostre istituzioni si basa in gran parte su questo rovesciamento operato nei secoli: come Dio, ogni autorità che abbiamo costruito è stata giudice arcigno, severo, pronto a coglierci in fallo. E’ un problema, ma perché sarebbe sbagliato? “Gesù sulla croce non fa paura a nessuno, è l’immagine dell’impotenza totale e insieme dell’amore più pieno, capace di affrontare ogni prova per noi”. Vedere così Dio, per chi non crede, renderebbe esplicita la mancanza di un amico affidabile, sincero, sicuro. Forse è questo il motivo per cui si parla di scristianizzazione: tutti abbiamo bisogno di un amico fraterno, capace di affrontare ogni prova per noi, ma nel corso del tempo ci siamo convinti che questo non esista, sia impossibile. Viene così a mancare un presupposto per capire cosa si perda rinunciando a quanto riteniamo impossibile. Dove starebbe dunque l’annuncio cristiano se non nel proporre quell’amico capace di affrontare ogni prova per noi, oggi? Constatare la scristianizzazione di molte parti della nostra cultura dipende anche da questo: dove è questo annuncio nel mondo che ci circonda? C’è?

Sarebbe sorprendente un Natale senza annuncio, ma questa festa del consumismo ci impedisce anche di capire a chi facciamo i regali, e perché. Per mostrarci anche noi innamorati di chi è pronto ad affrontare ogni sfida? Davvero?

La seconda frase che mi ha colpito l’ha pronunciata nel suo messaggio augurale alla Curia romana: mi riferisco al passaggio in cui ha ricordato che siamo a sessant’anni dal Concilio, che ha aperto le porte ad una conversione, per capire meglio il Vangelo e renderlo vivo, operante in questo momento storico. Dunque dobbiamo rimanere lì, immoti, convinti di essere giunti in un porto eterno? Ma no! “L’attuale riflessione sulla sinodalità della Chiesa nasce proprio dalla convinzione che il percorso di comprensione del messaggio di Cristo non ha fine e ci provoca continuamente”. Ecco allora lo stato d’animo con cui affrontare questo Natale, con il conforto di un amico pronto a fare tutto per noi; deve essere quello della ricerca, della conversione, che non può finire mai. Tutto sommato è stata la riforma liturgica a indicare che la Chiesa è sinodale. Il celebrante non è più la guida che indica la strada al popolo che non la conosce, ma si riunisce con esso intorno alla mensa eucaristica, dove celebrano insieme. E se celebrano insieme può esserci un modo di essere Chiesa non sinodale?

Trasmettere questa idea di sinodalità alle nostre società parcellizzate, disarticolate, sarebbe un modo nuovo per capire la nostra idea di democrazia. Non più al cospetto di un giudice arcigno, ma dei nostri fratelli nel cammino sociale da proseguire insieme. E’ per questo che condivido davvero quanto ha detto di lì a breve: “La cultura della pace non la si costruisce solo tra i popoli e tra le nazioni. Essa comincia nel cuore di ciascuno di noi. Mentre soffriamo per l’imperversare di guerre e violenze, possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo alla pace cercando di estirpare dal nostro cuore ogni radice di odio e risentimento nei confronti dei fratelli e delle sorelle che vivono accanto a noi”. La sinodalità sociale e tra i popoli mi è apparsa così la nuova utopia di cui il mondo che si globalizza nei problemi ma non nelle soluzioni ha bisogno, senza pretendere di annullare le nostre differenze, ma di armonizzarle. “Se è vero che vogliamo che il clamore della guerra cessi lasciando posto alla pace, allora ognuno inizi da sé stesso. San Paolo ci dice chiaramente che la benevolenza, la misericordia e il perdono sono la medicina che abbiamo per costruire la pace”.

E’ interessante notare che un liberale come Isaiah Berlin osservava anni fa che chi pretende di costruire la società perfetta penserà alla giustizia perfetta, senza attenuanti. Una giustizia che, a suo avviso, impedirà la misericordia. E’ quello che ci ha detto anni fa padre Paolo Dall’Oglio: “Parlo da cristiano: la cosa più sana che l’Islam ci ha portato è l’averci sconfitto in merito alla sacralizzazione del potere. L’Islam blocca la pretesa del Cristianesimo di costruire la società perfetta, finale, escatologica. Già nell’arte del Medioevo e del Rinascimento, Cristo è rappresentato come imperatore. L’Anticristo gli somiglia allora molto nei segni del potere. Il mistero dell’umiltà di Dio diventa l’icona del Moloch del potere”. Ecco perché a mio avviso padre Antonio Spadaro ha indicato nel suo ultimo articolo sulla crisi e il futuro della Chiesa proprio il centro di questo percorso natalizio che ho cercato di descrivere: “La memoria non va considerata come una trascrizione immutabile. Se il passato determina il presente, è perché a sua volta esso è ripreso e quindi rimodellato dal presente. È possibile una ‘conversione’ in profondità solamente se il passato non è già determinato e non è sottratto interamente alla possibilità di azione. Il passato deve rimanere aperto. Questa è la ‘giovinezza’. Non una condizione passeggera e transeunte, né una nostalgia da rincorrere goffamente e senza speranza come su un tapis roulant. La giovinezza consiste nel non sigillare il passato, nel lasciarlo aperto alle interpretazioni (e al loro conflitto). Perché? Perché la memoria dell’esperienza vissuta nel passato acquisisce nel presente un senso imprevisto, ma attuale ed efficace, nella direzione di un’attesa di futuro. La religione è anche un re-legere, una rilettura, un ripensamento del vissuto”.