“Non abbiate paura!”. 44 anni dall’esortazione papale a “spalancare le porte a Cristo”

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Folla radunata sul Muro di fronte alla Porta di Brandeburgo, il 9 novembre 1989. (AP Photo)

La paura era il sentimento prevalente negli anni di piombo e in piena guerra fredda. Karol Wojtyla il 22 ottobre 1978 iniziò il suo pontificato con un’omelia di speranza e profezia. “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!- disse 44 anni fa San Giovanni Paolo II-. Alla Sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati. I sistemi economici come quelli politici. I vasti campi di cultura, civiltà e sviluppo. Solo Cristo sa cosa è dentro l’uomo“. Non un Papa-re, ma un Pastore. Fin dal momento della sua elezione al Soglio di Pietro, Giovanni Paolo II si presentò e si considerò soprattutto il vescovo di Roma. Per questo in ventisette anni di pontificato ha visitato 317 delle 333 parrocchie della città eterna. giovaniUn’attività apostolica instancabile da globetrotter. Alla quale affiancò i suoi viaggi in Italia e nel mondo. Un pellegrinaggio dettagliatissimo che volle iniziare da San Francesco Saverio nel popolare quartiere Garbatella. La chiesa che nel dopoguerra frequentava da studente di teologia inviato a Roma dall’arcivescovo di Cracovia, Adam Sapieha. Per completare il percorso di formazione. La mappa romana del primo pontefice non italiano da cinque secoli includeva gli incontri in Vaticano con le comunità parrocchiali. Le visite alle chiese di borgata. Le celebrazioni nelle basiliche pontificie come la processione del Corpus Domini da lui ripristinata a San Giovanni in Laterano. E i fuori programma di relax. Come la colazione o il gelato in qualche bar accanto alla parrocchia.pauraL’occasione per rievocare tutto questo è offerta proprio dal 44° anniversario dell’intensa omelia di inizio pontificato. E dalla contestuale memoria liturgica del Pontefice canonizzato da Jorge Mario Bergoglio. Il comune di Ancona ha inaugurato una targa in sua memoria. Nel Largo dedicato al Papa santo ai piedi della Cattedrale di San Ciriaco. Un messaggio di straordinaria attualità che infonde fiducia e speranza nell’attuale situazione di difficoltà. Karol Wojtyla non dava molta importanza ai programmi istituzionali. Alle strategie elaborate a tavolino. E’ stato non un “capo” di governo. Ma un Papa della visione, dell’utopia. Un Pontefice dal quale i suoi collaboratori si sono sentiti spesso chiedere: “Che cosa farebbe Gesù in questa circostanza?. “Che risposta darebbe qui il Vangelo?”. E non solo in Vaticano, ma anche fuori, almeno agli inizi, non furono in molti a capire papa Wojtyla. Per la scarsa conoscenza di lui, del suo pensiero teologico-filosofico. Del suo dinamismo pastorale e missionario. E, di conseguenza, per i tanti pregiudizi che si nutrivano sul suo conto. Considerandolo un tradizionalista, un conservatore. E sul conto della Chiesa polacca da cui proveniva. Giudicata preconciliare, sostenitrice di una religiosità popolare ai limiti del bigottismo. E, dunque, una Chiesa ancora ai margini del centro del pensiero e delle grandi riforme seguite al Concilio Vaticano II.pauraSubito dopo l’elezione nella Cappella Sistina, Giovanni Paolo II andò a trovare un amico sacerdote. Ricoverato all’ospedale Gemelli. Un giornale italiano titolò a tutta pagina: “Il Papa straniero per le vie di Roma”. Straniero? O non era invece l’avvio di una nuova fase del papato. Liberato finalmente dall’antica “ipoteca” italiana. E dal peso di un eurocentrismo ecclesiale che pretendeva di dettare legge su tutto? “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. Era l’inizio del pontificato, il 22 ottobre del 1978. E più che leggerlo, il suo discorso, Giovanni Paolo II sembrava gridarlo. Lo aveva scritto tutto di suo pugno. In polacco, naturalmente. Ma dovendo poi pronunciarlo in italiano. Temendo di sbagliare parole e soprattutto accenti, aveva fatto le “prove” leggendolo al suo aiutante di camera. Molto rigoroso e pignolo nel correggerlo. Un po’ tutti i commentatori, allora, giudicarono il discorso pontificio troppo politico. E troppo pericoloso. Temendo che avrebbe potuto mettere in crisi i delicati equilibri geopolitici tra Est e Ovest.pauraInvece, le parole del suo discorso papa Wojtyla le portava dentro di sé da molto tempo. “Credo che la nostra liberazione debba essere la porta di Cristo”, aveva scritto all’amico regista Mieczyslaw Kotlarczyk. Il 2 novembre del 1939. Mentre infuriava l’invasione nazista. E, quarant’anni dopo, quelle parole rispuntavano fuori dalla memoria del
nuovo Papa. Dalla sua esperienza. Dal patrimonio di fede, di cultura e di storia della sua patria. Rispuntavano fuori per scuotere l’umanità. Per obbligarla a uscire dalla sua rassegnazione. Dalla sua passività. Dai suoi falsi miti. E ritornare invece a essere protagonista del suo destino. Fece impressione 44 anni fa vedere, alla fine del solenne rito, quel Papa scendere giù dal sagrato. Con passo irruente. E impugnare la croce
pastorale come un vessillo. Una bandiera. Vederlo andare verso la folla. Come se andasse verso il mondo intero. Non per sfidarlo. Non per riaprire antichi cruenti conflitti. Ma per testimoniare l‘incontro tra la verità di Dio e la verità sull’uomo. Tra il mistero della Redenzione e la dignità dell’individuo, di ogni individuo.